Non sono quel genere
di counselor che i depressi deve curarli, perché non credo saprei essere
convincente sul lungo periodo. Per fortuna, fra le altre cose, mi occupo solo
d’invio: ascolta, comprendi, tampona la crisi e prenota un appuntamento col
terapeuta più adatto. Il tutto in quindici minuti di scambio telefonico: sono
un pit stop con abilitazione psicologica.
Di solito, il mio lavoro non mi
dispiace.
Ci sono dei giorni però, quando
non settimane, in cui tutto sembra perdere senso. Ciò che fai e che fino a ieri
sembrava importante, inizi a chiederti se serva davvero a qualcosa. E quando si
comincia a dubitare di quello che si fa, il passo per cominciare a chiedersi
che senso abbia non solo la vita, ma l’universo intero, è breve.
Per fortuna trascorriamo la
maggior parte delle nostre esistenze senza porci grandi domande: siamo così
impegnati a vivere da non avere il tempo per riflettere su come lo stiamo
facendo. Sono i periodi della vita in cui sei “carico” o arrabbiato,
soddisfatto o battagliero, ma comunque non triste.
Abbiamo tutti paura di essere
tristi e facciamo di tutto per non esserlo, anche a costo di stordirci di
nulla.
Eppure la tristezza può anche
essere occasione di cambiamento. Per quanto la strada sembri buia e non si
riesca a intravedere l’uscita, il dolore ci rende consapevoli di essere vivi.
Oggi mi sento come quel giorno da
bambina, in cui mi risvegliai dall’intervento. Ero davvero piccola, eppure me
lo ricordo chiaramente: un attimo prima l’infermiera mi diceva che avrei
sentito un pizzico e io mi sforzavo di non chiudere gli occhi, per dimostrare
che potevo non addormentarmi. Solo da bambini si può pensare che sia fiko
rimanere svegli durante un intervento. Per fortuna, l’anestesia ebbe la meglio
e un attimo dopo mi svegliai in un posto freddo, con troppa luce, nessuno
accanto e l’horror vacui nel cuore. La cosa mi parve così insostenibile che
richiusi gli occhi per non vedere tutto quel verde sfocato intorno a me. Sarà
forse per quello che odio il verde? Probabile. Mi risvegliai in camera, con la
flebo attaccata e la mamma accanto. Sebbene avessi sempre sopportato di tutto
come una "brava soldatina", avevo l’impressione che il braccio bruciasse e dentro
una rabbia che mai ho riprovato in vita mia. Con sommo stupore di tutti,
iniziai a urlare e a provare a strapparmi tutti quei tubicini. Ricordo mamma che
mi sgridava e un’infermiera in sottofondo che diceva: “E’ l’effetto dell’anestesia”. Mi tolsero la flebo, ma già sentir
dire che quella non ero io, ma l’anestesia,
servì a calmarmi.
Quando sento parlare a un
cinquenne come se fosse un deficiente, mi ricordo cosa pensavo io a quell’età e
non posso non scambiare uno sguardo d’intesa col marmocchio.
Oggi mi sento un po’ così: guardo
quello che ho fatto, quello che faccio e vedo tutto verde sfocato. Mi sembra che, alla
fine, nulla valga.
Vorrei che cambiasse qualcosa, un
nuovo obiettivo, un amore più grande … ma non vedo come.
Così aspetto: aspetto Godot.
E per un attimo questa mattina mi
sono chiesta: perché alzarsi dal letto?
Lo svantaggio di essere disabili
è essenzialmente che dal letto ti ci alzano, spesso che tu lo voglia o meno.
E ti caricano su un treno, come
sempre in ritardo, come sempre carico di umanità ben poco sorridente.
E nevica. Il treno è in ritardo e
io non mi agito: non m’importa. So che a breve chiamerà l’autista per dirmi che
se non arrivo in stazione entro dieci minuti, lui non potrà aspettarmi. So che
dovrebbe essere un problema, ma non m’importa.
Ma il treno arriva e io salgo
appena in tempo sul furgone per disabili, diretta al lavoro.
Metto un tè nel microonde,
i colleghi salutano, ricambio senza nemmeno sforzarmi troppo di sorridere: a
che serve?
Poi suona il telefono. Per un po’ lo lascio squillare, supplicando mentalmente: “No, dai, non ora. Ho già i miei di problemi”.
Che problemi poi? Nessuno oggi: forse è quello il problema.
La collega prende la mia chiamata
e dopo un minuto me la passa, perché di là dal telefono, piangono. Se piangono sono
miei: non si sa chi l’ha deciso, ma è così.
Maledico mentalmente chi sta all’altro
capo, ma rispondo. La persona al telefono pare tranquilla, chiede se io sono io
e appena dico sì, ricomincia a piangere.
Succede sempre. Ogni volta che mi
sento depressa e accarezzo l’idea di mettermi in un angolino tranquillo per
passare inosservata, chiama qualcuno che aspettava solo me per liberarsi del
peso di un fiume di lacrime. Non importa che io non sia “quel genere di
psicologa” che aiuta a sentirsi meglio: non fossero completamente atei e
avessero davanti un prete, farebbero altrettanto … e ciò è alquanto avvilente.
Io ho studiato per ascoltare meglio, non come il lupo di Cappuccetto Rosso, che
con le orecchie grandi ci è nato!
Ma la verità è che non sono gli
studi di psicologia ad aiutarti a capire come le persone si sentono in certi
momenti, ma il fatto di ricordarteli, di averli superati e di sapere che, anche
quando tornano, non è mai “per sempre”.
E quelle parole che non sei stata
capace di trovare per te tutta la mattina, riesci a dirle a un altro, senza
sforzo alcuno, senza nemmeno pensarci.
Ti escono di bocca come fossero state
sempre lì.
Ma ciò che le rende efficaci è il
fatto che capisci davvero cosa l’altra persona sta provando: è qualcosa che
esce dal tuo cuore e finalmente entra nella tua mente, spogliandosi del suo
carico emotivo. Forse solo perché qualcun altro sta piangendo anche per te o
forse perché l’essere di supporto a un altro e l’unica vera via per non essere
infelici.
Il pianto iniziale si trasforma
in un “Grazie, mi sento già meglio” e
sono passati poco più di quindici minuti al telefono. Non lo guardo mai l'orologio, ma chissà perchè, essere ascoltati quindici minuti spesso basta. E mentre lei dice “Mi sento già meglio”, ti accorgi di
stare un po’ meglio anche tu.
Vi sembro troppo smielata se dico
che per me essere depressi significa pensare di non servire a nessuno?
Sono ancora triste, ma un po’
meno. Un altro paio di persone disperate e potrei pure cominciare a sorridere,
ma solo se poi si sentono meglio.
Che volete farci: ci sono giorni
in cui anche io avrei bisogno dell’abbraccio di uno sconosciuto. Qualcuno
capace di provare quello che provo io, ma che non mi sia così vicino da soffrirne.
Volontari?
Sono post come questi che danno un senso ad internet.
RispondiElimina“Grazie, mi sento già meglio”.
RispondiEliminaUn abbraccio.
Non lo so se davvero capisco cosa intendi.
RispondiEliminaPerò per quel che vale... da lontano: un abbraccio.
O per iscritto mi riescono benissimo! ;-)
Un abbraccio forte!
RispondiEliminaMi pare di rivedere una serata con una mia amica. A sostenerci a vicenda dando voce a cose che avevano forma ma non colore.
RispondiEliminaUn abbraccio grandissimo!