Qualche giorno fa, la mia amica Ilaria mi ha passato sei episodi della serie TV inglese "Sherlock Holmes", che ho iniziato a guardare con mio marito. Fra me e me pensavo che Sherlock fosse stato tratteggiato in modo esagerato nelle sue insofferenze e nell'iperattività, mentre Watson pareva troppo tollerante alle idiosincrasie di Sherlock. In evidente contraddizione con le mie cogitazioni, il consorte se ne è uscito con:
"Cavolo, quelli lì sono sputati noi due".
Ho iniziato a protestare con convinzione, fino alla scena in cui Sherlock, concentrato sul suo microscopio, chiede a Watson di passargli il cellulare, che sta nella giacca che indossa al momento. Watson scuote la testa, ma gli sfila dalla tasca il telefono, senza che Sherlock interrompa per un attimo il lavoro o gli faciliti il compito. Watson allora gli legge i messaggi, nonostante lui, saputo il mittente, dica di cancellarli, perché ne ha intuito il contenuto.
A parte utilizzare mio marito come estensione del mio corpo, per pigrizia più che per necessità - ma questo non diteglielo - la scena del cellulare, a casa mia, si ripete spesso. Arriva un messaggio o suona il telefono e io lo ignoro. A un certo punto, il marito si innervosisce e regolarmente mi chiede perché non rispondo, e di solito spiego:
"Il numero non è visibile e a quest'ora può essere solo un operatore di call center che vuole propormi un abbonamento Internet".
"Si sta aprendo il cancello elettrico: Serena è arrivata, quindi mia madre vuole che scendiamo a mangiare. Preferisco andare giù, così devo sentirla sbraitare che sono tutti pronti da ore solo una volta".
"E' Lucia che vuol sapere se ha lasciato da me gli occhiali: non si è ancora accorta di averli in testa".
"Domani è domenica, mamma è stata dal macellaio, quindi preparerà l'arrosto. Si è appena accorta di non avere il vino bianco e, poiché nemmeno noi ne abbiamo, è inutile che risponda".
Perché mai dovrei rispondere se il motivo della chiamata mi è già chiaro?
Tornando a Sherlock Holmes, come se la similitudine dell'uso del telefono non bastasse, arrivati all'episodio che introduce Moriarty, vediamo uno Sherlock mortalmente annoiato, che riceve diversi clienti a colloquio e li liquida in pochi istanti, dicendo semplicemente "boring": noioso.
L'uso sconsiderato del termine "noioso" è un altro elemento indiscutibile di somiglianza tra me e il "sociopatico iperattivo" e, di fronte all'evidenza, non si può che riconoscere i propri errori e osservare con maggior attenzione.
Certo, di Sherlock non ho certo la capacità intuitiva inverosimile, né le conoscenze interdisciplinari e nemmeno, grazie al cielo, la totale indifferenza verso la maggior parte del genere umano, ma la noia, ahimè, è un nemico sempre in agguato.
Non che mi annoi spesso, semplicemente so che non posso stare più di pochi minuti senza fare nulla. E, dolorosamente, lo sa anche mio marito.
Questo fa si che casa mia sia in perenne stato post-tsunami. Volgendo lo sguardo da un capo all'altro di una stanza, si possono scorgere pennelli e tele, tempere, acquarelli, pirografi, uncinetti, ricami, smalti da nail art, ricettari, fotografie, fotomontaggi, appunti, libri di ogni genere, alcuni scritti da me, che vanno dal serissimo "Consulenza telefonica e relazione d'aiuto" al goliardico "Kamasutra interstellare".
Il problema è che amo impadronirmi di una tecnica e, appena raggiungo risultati soddisfacenti, mi annoio. Così passo da un hobby all'altro, applicando pedissequamente il detto: "Impara l'arte e mettila da parte".
Il bello è che poi non tollero di avere per casa le mie opere, perché sono sempre imperfette e, averle sotto gli occhi, mi irrita.
Per fortuna va molto meglio con il lavoro. Credo di essere finita nell'unico posto al mondo in grado di mantenermi interessata per una discreta parte del tempo lavorativo, o almeno quasi sempre.
Difficile è spiegare agli altri che lavoro faccio.
Tra i compiti che svolgo regolarmente c'è il counseling telefonico, che adoro principalmente perché richiede che, in pochi minuti, si riesca a cogliere la problematica della persona con un mezzo - il telefono - che elimina la maggior parte delle informazioni di cui disponiamo abitualmente. Per capire la situazione e fare un invio corretto al servizio di supporto psicologico, si hanno a disposizione solo ciò che dice la persona all'altro capo del filo - che spesso non dice tutto e nemmeno sempre la verità - e i suoni: tono, pause, inflessioni, rumori di sottofondo... "Sfortunatamente", i "casi" nell'arco dell'anno non sono tantissimi e davvero pochi sono "originali".
Ogni persona è diversa dalle altre, ma ciò che ci fa soffrire sono sempre le stesse cose.
Basta aver presente il contesto, per capire quante telefonate riceverai nella settimana e per quali motivi. Alcuni giorni prima degli appelli d'esame è il periodo di ansia e attacchi di panico, le ferie natalizie sono per la depressione e i problemi familiari, l'ultimo semestre prima della laurea è il momento ideale per i dubbi esistenziali... e via dicendo.
Pensiamo tutti di essere strani e diversi, ma in realtà cerchiamo di nascondere agli altri ciò che più ci accomuna.
Quando suona il telefono, a seconda dell'orario, del giorno della settimana e del periodo, fare una previsione verosimile su chi si troverà all'altro capo del filo, è una cosa cui arriverebbe anche Watson.
E' quando lo squillo arriva in momenti inaspettati che la curiosità si accende, ma non accade spesso e ciò credo sia un bene per la società in generale.
Altra attività che svolgo con regolarità, sono i colloqui di supporto al metodo di studio e il motivo per cui mi piacciono tanto è che, aiutando i ragazzi a studiare, ho modo io stessa di esplorare campi del sapere che non avrei tempo di approfondire altrimenti.
Io sono il genere di persona che conosce il nome latino dei funghi e non è in grado di nominare il titolo di una qualsiasi canzone pop sfornata negli ultimi vent'anni.
Lavorare con le persone è comunque sempre affascinante, anche se non ne ricordi il nome. Osservarle, cercare indizi, estrapolare dinamiche interpersonali, capire cosa passa loro per la testa a prescindere da quel che dicono, che talvolta è l'opposto di quel che pensano... Le persone sono meravigliose e ancor più meravigliose sono le persone viste in interazione. Cosa ancor più importante, è che osservare le persone richiede concentrazione e attenzione. Gli esseri umani sono il sistema più complesso che si possa osservare e, per quanto ti sforzi, per quanto il 99% delle volte tu possa capire i comportamenti di qualcuno, anche la creatura più monotona del mondo, in talune circostanze, riuscirà a stupirti.
Un contesto interessante ti fa dimenticare qualsiasi altra cosa, tipo l'ora di pranzo o che per spostarti con una carrozzina elettrica devi prima accenderla.
Le persone mi piacciono, soprattutto quelle che non comprendo o quelle che si dilettano nella comprensione del genere umano, non necessariamente a fini terapeutici. I miei amici "intimi" sono tali in quanto creature capaci di ragionamenti, osservazioni e contorsionismi mentali indecifrabili.
Unica eccezione è mio marito Watson, perché proprio come Sherlock Holmes, senza una persona prevedibile, pratica e affidabile, che pensi a tutti i dettagli, non sopravviverei a lungo.
Lui è il tipo di persona che non si arrabbia quando rientra a casa alle venti e scopre che ero così presa da un progetto da dimenticarmi di preparare la cena.
Se ti piace osservare i comportamenti, la cosa più bella che puoi fare come parte del tuo lavoro sono la selezione delle risorse umane e i corsi su processi di selezione e comunicazione. Nel primo caso, hai l'opportunità di osservare qualcuno che è disposto a simulare qualsiasi atteggiamento pur di ottenere un lavoro che lo renderebbe probabilmente infelice a vita. Nel secondo caso, hai l'opportunità di inventare simulazioni, giochi di ruolo, creare situazioni che consentano alle persone di mettersi alla prova in contesti che credono protetti. Protetti da cosa non è ben chiaro, dato che il gioco lo conduco io.
Insegnare è noioso e non capirò mai chi si ostina a a spiegare le cose, quando può semplicemente farle sperimentare. E poi, proprio come Sherlock, mi piace "tirarmela" e dire ai ragazzi che osserveranno le dinamiche: "Alla fine, mi dovrete spiegare perché i partecipanti si sono sentiti tanto coinvolti da una simulazione al punto di continuare a parlarne anche durante la pausa caffè".
Almeno io non dico "Elementare", ma "Adoro i piani ben riusciti".
Tornando al mio lavoro, a volte esce un bando... e lì mi sento alla grande per giorni, spesso settimane intere. Mi sento come Holmes quando è strafatto di coca. Perché devi creare, inventare dal nulla qualcosa che non c'era e far capire a chi lo valuterà che non gli stai dando solo ciò che chiede, ma molto, molto di più.
Nel mondo del copia-e-incolla, in cui la gente cambia il titolo a un format per crearne uno nuovo, non può esserci evoluzione, ma solo tedio, pessimismo e fastidio. Per stupire non serve un genio, ma qualcuno disposto a usare i neuroni.
E non è vero che pochi sono in grado di creare. La verità è che creare è faticoso e pochi sono interessati a ciò che fanno abbastanza da rendere accettabile lo sforzo.
Almeno io, quando "medito", non fumo la pipa né suono il violino, ma inspiegabilmente, alla fine del processo, ho una delle due guance incredibilmente più rossa dell'altra e la batteria della carrozzina scarica. Questi indizi che non riesco a sopprimere mi urtano non poco, perché amo fare la misteriosa sui miei reali stati interiori e, ogni volta, chi mi conosce mi sgama:
"Hai una guancia bordeaux. Ti prego… non un altro progetto!"
Non bastasse l'afflusso sanguigno ad una sola gota a tradirmi, ho pure un'altra pessima abitudine. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da una disabile, io non riesco a pensare da ferma: vado avanti e indietro per la stanza, lasciando ovunque impronte di pneumatico e talvolta borbottando fra me e me.
Non bastasse l'afflusso sanguigno ad una sola gota a tradirmi, ho pure un'altra pessima abitudine. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da una disabile, io non riesco a pensare da ferma: vado avanti e indietro per la stanza, lasciando ovunque impronte di pneumatico e talvolta borbottando fra me e me.
Per quando mi concerne, mi conosco abbastanza da sapere che quando la mia mente non è impegnata in qualcosa di stimolante, subentra l'insoddisfazione, che porta alla depressione, al dubitare di se stessi e dell'utilità della vita sulla Terra in generale.
Ogni giorno si incontrano zombie uccisi dalla routine o dalla mancanza di interessi. Fare sempre e solo le stesse cose e continuare a vivere.
Io so che quel che mi ucciderà non sarà la malattia, ma la noia.
Non che eviti i compiti noiosi: oltre alle attività stimolanti di cui sopra, faccio anche cose ripetitive. Attivo stage, dò informazioni allo sportello, rispondo a mail sempre uguali, pubblico annunci in bacheca elettronica, elaboro statistiche, scrivo report... Queste attività sono spesso preponderanti, ma necessarie. Se fai solo cose interessanti, del resto, non puoi apprezzarle davvero, perché non c'è confronto con quelle di cui devi solo disfarti il prima e meglio possibile. Tuttavia, non potrei mai fare un lavoro che non mi interessi per la maggior parte del tempo.
Essere disoccupati è terribile, ma svolgere un lavoro che odi, ti permette di sopravvivere... e non sempre ne vale la pena.
Il lavoro occupa metà delle ore di veglia e a volte di più, se sei pendolare. Se il tuo lavoro ti fa schifo, probabilmente non sarai incredibilmente felice nemmeno del resto della tua vita.
Per questo non mi sento in colpa se escludo un candidato da una selezione: io conosco il lavoro che andrebbe a fare e so che, passati i primi sei mesi di sollievo, fors'anche gioia, per aver trovato un impiego, finirebbe infelice quanto prima o forse dì più, perché si sentirebbe in trappola, non potendo permettersi il rischio di lasciare una posizione sicura, per qualsiasi altra che non dia le stesse garanzie... e non esistono praticamente posti di lavoro "sicuri" si dall'inizio. Perché quindi scegliere chi vuole un lavoro, quando puoi scegliere chi vuole QUEL lavoro?
I candidati odiano i selezionatori, perché non sanno che il loro compito non è giudicarli, ma cercare di capire se, a lungo termine, stai facendo loro un favore o un torto mortale. A volte ti "fregano" comunque, ed è triste, perché hanno solo fregato se stessi.
Lavorare con me, ad ogni modo, non deve essere facile. Spesso mi chiedo perché alcuni colleghi siano interessati a venire in aula con la sottoscritta. Insomma, la capacità di autoanalisi non mi manca: conosco i miei difetti, so come correggerli, ma spesso mi dimentico di farlo o non ho voglia di farlo. Non perdo facilmente le staffe, anzi, credo che in nove anni, si possano contare sulle dita di una mano le occasioni in cui ho alzato la voce... eppure se ne ricordano tutti, soprattutto io. Odio perdere il controllo e mi sottopongo a severe verifiche interne ogni volta che accade.
E, credetemi, nessuno di voi vorrebbe avere a che fare col mio SuperIo.
Credo che il difficile del lavorare con me sia la sincerità. Il tatto e i giri di parole si usano con utenti e pazienti, con i colleghi non si dovrebbe perdere tempo: se una cosa fa schifo, fa schifo, anche se a proporla è il Papa in persona. Ma non tutti sono in grado di sopportare le cose come le vedo io. I miei colleghi preferiti, spesso mi dicono: "Sei una persona orribile". Lo dicono ridendo, ma sappiamo tutti che è vero.
Io lo so, che certe cose posso dirle solo io e solo perché sono su una sedia a rotelle.
Se guarissi improvvisamente, perderei la mia identità e il diritto di dire quasi sempre ciò che penso. Perché alcune cose possono essere dette solo da chi è in grado di dimostrare, a colpo d'occhio, di averne passate a sufficienza.
Ma non sempre serve dire le cose come stanno: essere onesti richiede persone in grado di accogliere la verità e capaci di farsene qualcosa. E, poiché odio sprecare tempo ed energie, mi concentro su chi è disposto a sperimentare e cambiare, mentre ai tradizionalisti dò sempre e subito ciò che vogliono: la solita minestra. Perché le persone non cambiano su certe cose e, soprattutto, non serve cambiarle.
Se fossimo tutti uguali, il mondo andrebbe anche peggio.
Nonostante le mie idiosincrasie, riconosco che per lavorare e vivere bene, ho un bisogno fisico e mentale degli altri. In passato mi sono chiesta se avrei potuto lavorare da sola e la risposta è stata chiaramente no.
Primo.
Non riuscirei a sopportarmi.
Secondo.
Non potrei mai essere il capo di me stessa: non riuscirei a lavorare per qualcuno che pensa di saperne sempre più di me.
Quanto a tutto il resto, finché incontrerò persone disposte a frequentarmi nonostante i miei comportamenti, non avrò grossi incentivi a cambiare. E davvero spesso domando ai miei amici cosa cavolo li spinge a chiamarmi dopo settimane in cui non mi faccio viva, perché presa da chissà che o annoiata da tutto. Ma nessuno mi ha ancora riposto in modo adeguato... credo che infondo non lo sappiano nemmeno loro.
Spesso l'ho chiesto pure a mio marito:
"Come fai a stare con una che non sa nemmeno quanti anni ha senza fare il conto ogni volta? Una che cambia idea su cosa fare da un'ora all'altra? Una che pretende sempre troppo da sé e da chi le sta intorno?".
Finalmente un giorno mi ha dato l'unica risposta plausibile che potesse soddisfarmi:
"Perché con te, tesoro, non ci si annoia mai."
E finché ci sarà mio marito Watson a ricordarmi di infilare le scarpe e a prepararmi la borsa prima di uscire di casa, almeno gli estranei potranno pensare che sono normale... per quanto possa sembrare normale una che va in giro su un'enorme carrozzina elettrica, senza accorgersi di ciò che attorno a lei rientra nella norma.
Bellissima descrizione, in cui, in parte mi ritrovo. Ti trovo ironicamente splendida. O splendidamente ironica.
RispondiEliminaMi piace e credo mi piacerebbe avere a che fare con te anche se non fossi seduta su una carrozzella. Saprei probabilmente quando girare al largo. Bello conoscerti un po' meglio.
RispondiElimina8:-D
Eliminaookeutu. E allora?! Ogni volta devo dimostrare di non essere un robot?! Hai mai visto un robot che semina occhiali???