sabato 4 agosto 2012

Anche i disabili piangono

Non sono il tipo che si commuove, giuro. Non lo sono dalla più tenera età: quando trascorri buona parte dell'infanzia tra medici, ospedali e interventi, la prima cosa che impari è tenere duro e non piangere mai, almeno non in pubblico. Cosa vuoi che sia la morte della mamma di Bambi quando a quattro anni ti aprono entrambe le gambe per giocare a tangram con i tuoi muscoli? 

Non credo di aver mai pianto per un film, con Hachiko, lo confesso, ci sono andata vicina, ma non è accaduto. Non che sia insensibile, ma sono più il tipo che soffre o gioisce internamente. Solo la rabbia la esterno bene, ma credo che sia unicamente perché spesso assolve una funzione adattiva: si ottengono più risultati con l'aggressività controllata che con mille suppliche.
Piangere, soprattutto davanti a testimoni, non è debolezza, ma è perdere il controllo e a me il controllo piace. Non posso dare ordini a buona parte del mio corpo, quindi cerco di specializzarmi su tutto il resto, emozioni incluse.

E poi arriva lui, un amputato qualunque, un tale di nome "Oscar Pistorius". Pur avendo seguito la sua vicenda e aver perorato la sua causa nelle discussioni "Olimpiadi sì/Olimpiadi no", confesso che era per lo più un esercizio intellettuale. Nemmeno ricordavo che oggi avrebbe gareggiato per le semifinali dei giochi olimpici. Sono finita casualmente sul canale, facendo zapping, e mi sono inchiodata a guardare, dopo il primo piano delle sue elegantissime protesi in fibra di carbonio. 

Ed eccolo lì, bello come il sole, pronto a correre in un mondo che così raramente riesce a integrare uno "dei nostri". 

E non è che lì ci sia arrivato senza ostacoli e senza polemiche. 
Vedendolo su quella pista, mi sono chiesta se anche lui, nel bilancio complessivo della propria vita, sia arrivato alla conclusione che infondo è stato molto più facile lavorare sul suo handicap che sulla società in cui vive. Infondo l'handicap è parte di te e lavorare su di te è molto più umanamente possibile del lavorare su tutti i fattori esterni. 

Non facile: umanamente possibile.

E poi eccolo che parte: come uno di tutti gli altri, nonostante sia un Eroe più di quanto lo saranno mai quelli sulla pista insieme a lui. 

Se anche su quella pista ci fossero stati solo atleti italiani oltre a lui, il mio cuore non avrebbe comunque avuto alcun dubbio sulla persona per cui tifare. E l'ho fatto a modo mio: osservando, attenta, in silenzio, insieme a mia madre. Pochi secondi e tutto finisce, o dovrei dire comincia, con un meritatissimo secondo posto, che rende Pistorius il primo atleta bi-amputato della storia a partecipare alle Olimpiadi e a qualificarsi. 

Come se nulla fosse, racconto a mia madre la storia dell'inventore di quelle protesi, Van Phillips, anch'egli amputato, a dimostrazione che, se una cosa vuoi che sia fatta bene, te la devi fare da solo. Ma mentre la racconto, la voce ha qualcosa che non va: incrinature insolite, che ascolto io stessa con sospetto e stupore. Il cuore ha un tuffo e mi ricordo improvvisamente dove l'avevo messo. Ma tutto finisce lì. Salgo a casa mia, pranzo, vedo un po' di TV e decido di mettermi al computer, per festeggiare Pistorius con un'immagine su Facebook. E mentre Yahoo mi ripropone immagini e filmati della sua carriera, realizzo davvero il miracolo che quest'uomo ha compiuto. 

Il miracolo di Pistorius è che ha faticato a tal punto da riuscire ad adattarsi a un mondo che non gli appartiene. E  quando questo mondo ha provato ancora a respingerlo, nonostante i risultati, ha continuato a lottare, con altri mezzi - legali e mediatici - fino alla vittoria.

Guardo quest'uomo sullo schermo e lo guardo con un misto d'orgoglio e d'invidia. E poi piango, anzi, a dirla tutta, sto ancora piangendo a intervalli regolari.
E non lo so nemmeno perché piango, o meglio lo so, ma è un miscuglio così complesso, che solo scrivere può aiutarmi a capire. Piango perché lui ce l'ha fatta e ha dimostrato che è possibile. Piango perché a 26 anni, lui ce l'ha fatta, mentre io a 37 non ho ancora lasciato un segno. Piango perché tutto mi sembra ancora possibile e perché voglio provare la stessa emozione che deve provare lui in questi giorni. Piango perché è giusto e per un milione di altri motivi per cui oggi è giusto piangere.

Prima della gara, lui aveva detto di aver già vinto, per il solo fatto di essere su quella pista. Ed è vero: ha vinto, ma vincerà ancora di più quando si alzeranno altre polemiche e lui continuerà a sostenere una lotta che non è più la sua lotta, ma quella di tutte le persone che ogni giorno cercano di entrare in un mondo che non si spreca in grandi possibilità d'integrazione.

In un'intervista, Pistorius ha voluto rispondere a quella domanda che credo gli sia stata posta troppo spesso nella vita, sicuramente non da disabili: 

Caro Pistorius, non è più così. Tu non stai correndo più solo per te stesso: tu corri per tutti gli amputati e i disabili del mondo. Anche se forse non lo sai e, forse, nemmeno lo vuoi.

In un post di qualche tempo fa (Vantaggiosi svantaggi), scrivevo che avrebbe dovuto rinunciare, perché anche se vincesse, i normodotati non gli riconoscerebbero mai la piena vittoria, sostenendo che le protesi sono un "vantaggio".

Beh, mi sbagliavo. Lui deve continuare a gareggiare e a fare del suo meglio per vincere, perché su quella pista ci siamo tutti "noi". 

E ben vengano il clamore e le polemiche, che sicuramente fanno compiere molti più progressi del pietismo e della carità.

Questo noi chiediamo al mondo normale: che ci fornisca gli strumenti - medici, scientifici, assistenziali -  per mettere piede su quella stramaledetta pista. E che poi lo starter spari il colpo: noi saremo pronti a spingere con più forza, passione e motivazione di chiunque altro.

E solo una cosa vorrei direi ora a Pistorius, se ce lo avessi davanti:

Grazie! Grazie davvero, ma ricorda che la guerra, la nostra guerra, la stiamo ancora combattendo e abbiamo bisogno di vessilli. E tu sei la bandiera più bella che una nazione possa avere.

E ora metticela davvero tutta per portare a casa una fottutissima medaglia, altrimenti ti sego le gambe!






venerdì 3 agosto 2012

Sono disabile e in quanto tale, sono sempre, costantemente incazzata come una bestia

Da qualche giorno mi fisso assiduamente allo specchio, notando l'inquetante delinearsi di una ruga d'espressione tra gli occhi. Ora, sia chiaro, so che sto invecchiando e che i segni del tempo sono inesorabili, ma come diavolo è possibile che una ruga d'espressione si delinei in una donna che, in virtù della propria malattia, ha la mimica facciale di un comodino? Me lo sono chiesto e richiesto, cercando di fare smorfie davanti al mio riflesso speculare e costatando che, per quanto mi sforzi di trasmettere sentimenti col viso, rimarrò sempre e comunque il miglior giocatore di poker sulla piazza. E allora, da dove viene questa ruga?
Ho scimmiottato davanti allo specchio tutta una mattina, senza vederla mai accentuarsi. Poi, improvvisamente, mio marito mi urla dalla stanza attigua: "Engy, ti sei ricordata di inviare quel FAX all'INPS?" Ed eccola lì, la ruga bastarda! Mi vien fuori ogni volta che mi incazzo e, considerando quanto spesso m'incazzo, è normale che stia disegnando un canyon tra i miei occhioni tenebrosi!

Insomma, non diventerò una di quelle MILF con le zampine di gallina e le rughe intorno alla bocca, tipiche di una persona che ha il sorriso sempre sulle labbra. Quando vedo queste solari quarantenni, non posso fare a meno di chiedermi che cavolo avranno mai avuto da ridere tanto nella vita. Ma infondo è tutta invidia, l'invidia di una persona a cui chiedono "Perchè hai quella faccia così scura" anche quando è di buon umore.

Un po' è pure conformazione: se hai muscoli tonici quanto una gelatina di lamponi, già per natura la palpebra cala e gli angoli della bocca si afflosciano. Un po' però c'entra anche il fatto che me le fanno girare spesso.

Sono la Joele Dix degli handicappati:

Sono disabile ed essendo disabile, sono sempre, costantemente incazzata come una bestia.

E la malattia non c'entra. Troppo comodo dire: "E' arrabbiata col mondo perché sta su una sedia a rotelle". Innanzi tutto non sono arrabbiata col mondo intero, ma solo con una fetta, per quanto cospicua, di umanità. Quanto alla mia "sedia a rotelle", non c'è cosa al mondo che ami più di lei, nemmeno mio marito.

La sedia a rotelle mi ha liberata dal supplizio di dover misurare le distanze e rinunciare a quasi tutto, perchè non riuscivo a muovere più di dieci, sbilenchi ed umilanti passi per volta.

Se non diventerò mai alcolista, lo devo unicamente al fatto che sarei terrorizzata dall'idea di dover intraprendere la terapia dei dodici passi, il giorno in cui decidessi di smettere.

La sedia a rotelle prima e la carrozzina elettrica poi, sono state le cose più meravigliose che mi siano mai accadute nella vita. Solo un disabile DOC può capire cosa si prova ogni volta che ci si siede con sicurezza al joistick di una carrozzina elettrica, soprattutto se di quelle che hanno un qualcosa in più rispetto al modello base passato dall'ASL. Appena le terga poggiano sul cuscino antidecubito, ritrovando i familiari solchi disegnati negli anni, senti che quello è il tuo posto e che il tuo posto è comodissimo. Lo sa pure il gatto, che appena mi sposto dalla carrozzina, si fionda proprio lì, snobbando il divano.

Forse solo i motociclisti che salgono in sella ai propri bolidi possono sperimentare lo stesso senso di libertà.

La carrozzina a motore rende liberi... almeno finchè non incontri un gradino.

Innalzerò personalmente una statua al primo ingegnere che riuscirà a progettare e far commercializzare a prezzi vagamente accessibili una carrozzina a motore che faccia pure i gradini. E guardate che con "prezzi vagamente accessibili" intendo perlomeno non superiori alla mia attuale carrozzina, che costa poco meno di una Panda. E, nel caso ve lo stiate chiedendo: no, non sono ricca, ma ho delle precise priorità nella vita: infatti non ho una Panda.

Quindi, se sono sempre incazzata, non è colpa della mia compagna di vita Otto Bock.

Nemmeno il lavoro, una volta in ufficio, è fonte di particolari moti d'ira: credo che in tutta la mia carriera, mi sia capitato solo una volta di perdere veramente le staffe in ufficio e ancora aleggiano leggende in merito.

Il marito ci mette del suo, nei miei malumori quotidiani, ma finché riuscirà a fare i suoi occhi da leprotto abbagliato, non riuscirò mai a restare arrabbiata prima di andare a dormire.

E allora cosa irrita tanto da segnare il mio viso?

Sorvolerò sui dettagli raccapriccianti che accompagnano ogni giorno una disabile cingolata, che intraprende un viaggio di due ore, per arrivare in un luogo non propriamente euforizzante, qual'è un ufficio ubicato sotto terra. Vi dico solo che, per approdare alla mia scrivania, trascino nella mia apocalittica quotidianità ben quattro persone: marito, Capotreno, addetto ai tornelli in stazione - che dare una tessera al disabile perchè si apra da solo sarebbe troppo logico - e autista del pulmino trasporto disabili. Ed è ovvio che più variabili metti sul tuo percorso più è alto il rischio di incidenti.

Se i bookmakers inglesi aprissero le scommesse sulla probabilità che qualcosa non mi faccia incazzare prima delle 9.00, la darebbero 10 a 1.

Lungo questo tragitto, percorro lunghi tratti con la mia fedele carrozzina, circumnavigando marciapiedi senza scivolo, scivoli congegnati per uccidere, automobilisti attratti dai parcheggi per disabili peggio delle mosche con la merda, normodotati che camminano guardano per aria, ignari dell'esistenza di forme di vita che circolano al di sotto del metro è venti. A tal proposito, lancio un appello:

Creature deambulanti, provate a guardare dove mettete i piedi: io lo faccio ed è per questo che la maggior parte di voi esibisce ancora tutte le falangi.

Non parliamo poi dell'adeguatezza dei mezzi di trasporto pubblico e della sensibilità all'handicap di taluni autisti dei medesimi. Per fortuna, almeno sul fronte autista, su alcune linee di Milano stiamo lentamente migliorando: nulla più di un esposto e di qualche richiamo ufficiale rende un tranviere o un pulmista più dolorosamente consapevole dalla tematica handicap. Certo, poi però è meglio evitare di viaggiare in tarda serata: se uno di questi becca me o mio fratello soli, sul loro mezzo di trasporto, non escludo che potrebbe eliminarci, ignorando che occultare una sedia a rotelle da cento chili sia ben più complesso che disfarsi di un cadavere. Per questo non ho ancora ucciso mio fratello.

Ma non basta. A rendere la vita di un disabile ancor più ricca di emozioni, non necessariamente positive, ci si mette sovente pure l'INPS. Anche ora, che hanno impostato i servizi per il cittadino online, le cose non si sono semplificate un gran che. Inizio a sospettare che occorra ben più di una laurea in psicologia per penetrare gli oscuri meandri di una pratica online. Io sto smadonnando da dieci giorni, per presentare il modello ICRI, in cui dichiaro che non sono ricoverata presso un istituto di cura e probabilmente, quando (forse, semmai) riuscirò a ultimare la procedura, mi dovranno ricoverare sì: al nosocomio.

E poi, ovviamente, ci sono tutte quelle faccenduole che ogni tanto movimentano ancor più l'esistenza, tipo quella del mio amico handy che, nell'era di Skype, dovrebbe rinunciare a finire gli studi accademici perché l'ufficio disabili dell'Università di Modena e Reggio Emilia sostiene che non v'è possibilità alcuna di fargli fare un esame da casa. E' davvero possibile che nel 2012 ci si perda ancora in un bicchier d'acqua simile o è solo cattiva volontà? Lo scopriremo col prossimo, emozionante Esposto al Rettore.

Perché spesso le cose poi funzionano, ma quasi mai finiscono per farlo senza un "aiutino" da parte di disabili incazzati e uomini di buona volontà. Guardate Trenord: non c'è treno più bello ed accessibile in Italia di quello che prendiamo ogni giorno io e mio fratello. Ci sono solo voluti un paio d'anni della mia vita per approdare a un simile risultato, ma ora Trenord può fregiarsi pubblicamente di questo traguardo: aver reso veramente accessibile un treno della flotta.

Fare l'handicappata non è facile, ma non è che la medicina o la religione possano fare miracoli, anche se, tecnicamente, questa sarebbe la mission di almeno una delle due. Comunque, in ogni cosa è sempre bene cercare il lato positivo. Negli anni, grazie alla disabilità, ho sviluppato tante di quelle competenze che nemmeno tutti gli stage del mondo. Grande capacità dialettica, adattamento al contesto, redazione di documenti e lettere formali, conoscenza di procedure e un pizzico di giurisprudenza, forte orientamento al massacro... pardon! all'obiettivo.

Sono quasi tentata di inserire "disabile" alla voce "competenze professionali" del mio curriculum.

Ma la disabilità non regala solo competenze spendibili in qualsiasi azienda. La disabilità è il metodo più semplice ed efficace per donare al tuo volto rughe alla Clint Eastwood, anche quando, sulla carta, non hai il corredo genetico necessario ad una grande espressività facciale.

In pratica ora mi viene bene quasi solo una faccia: quella da mezzogiorno di fuoco.

Ruga da Mezzogiorno di Fuoco
Dettaglio della mia ruga,
mentre penso all'INPS