lunedì 20 gennaio 2014

Il Disabile Smascherato

Oggi ho scoperto che c'è una nuova cosa che mi manda in bestia... come se già non ce ne fossero abbastanza eh!
Davo una scorsa ad una pagina web, che riporta diversi articoli apparsi sui giornali relativi alle disavventure subite dai disabili nei vai contesti. Ecco, già diciamo che iniziare la mattinata leggendo che ci sono disagi riservati ad alcune persone solo perché appartengono ad una determinata categoria sociale non è cosa che ti metta di buon umore, soprattutto se appartieni a quella categoria. Ma ora vi faccio un test, per vedere se, nonostante siate bipedi, ci arrivate da soli a capire cosa ci sia di stonato nei titoli di questi articoli:
 
"Facchinetti telefona al disabile: addolorato per ciò che è accaduto"
"Multe: se l’invalido dimentica di esporre il contrassegno su parabrezza"
"Gita con la disabile, scontro a scuola «Umiliata, ma si sono scusati»"
"Ragazzo disabile scrive libro col mento, una copia a Papa Francesco"
 
Potrei andare avanti per ore... voi ci siete arrivati?
Vediamo di darvi un ulteriore aiutino, che si sa che i bipedi ci mettono un po'...
 
"Stamina, Caterina Ceccutti: «Ecco cosa ci hanno guadagnato i medici che seguono i nostri bambini»"
"Keller, cane cieco e disabile, e il suo padrone commuovono la rete"
 
Avete mai notato che nei titoli degli articoli di giornale i disabili raramente hanno nome, figuriamoci un cognome? Le foto poi? Sempre un "modello bipede", o di spalle o col viso coperto, manco fossimo mafiosi. Si potrebbe pensare che sia perché sono degli sconosciuti, ma  pure Caterina Ceccutti lo è.
Così, a occhio, ho notato che raramente un disabile compare con le sue generalità o con altri dettagli sulla sua persona, oltre ad avere un handicap.
 
Che cos'ha il cane Keller più di un handicappato umano per comparire in un articolo di cronaca col suo nome proprio?
 
Poi mi sono decisamente messa d'impegno e ho passato in rassegna oltre un centinaio di titoli, alla ricerca dei protagonisti diversamente abili delle storie che leggiamo tutti i giorni. Ma veramente in pochissimi casi compariamo come persone, con una specifica identità, anziché come disabili e basta o addirittura rappresentati dalla nostra diagnosi: "Ragazzo autistico", "Donna affetta da SLA". "Tetraplegico"... A parte "Gavino, il disabile che chiede l'assistenza sessuale"... hai capito lo zozzone? E' citato per cognome! E ben venga Gavino, ma così sembra che l'assistenza sessuale la voglia solo lui, dato che sul resto delle umane faccende siamo citati come una massa più indistinta dei cinesi.
 
Insomma, pare che l'unica cosa per cui possiamo attirare l'attenzione su di noi come soggetti, sia la disabilità: come se null'altro particolare ci rendesse degni di nota, tranne la voglia di scopare.
 
Se penso che io sono molto più rompicoglioni che disabile, la cosa mi fa incazzare non poco!
 
Eh no, non ci siamo. So che i titoli di giornale devono essere immediati e concisi, ma la depersonalizzazione è un'altra faccenda. E in parte è colpa nostra, che preferiamo non essere nominati per nome e cognome o non comparire in foto. Come se ci fosse qualcosa di cui vergognarci in quello che facciamo o nei nostri corpi.

Ah già... la privacy. E dove cazzo finisce la privacy quando ti fai issare come un quarto di bue su per le scale perché manca l'ascensore? Dove sta la dignità quando non puoi pisciare, perché il cesso del ristorante è solo per normali?
 
Noi siamo belli... un po' come il cubismo, ma è pur sempre arte non commerciale!
 
Se non siamo noi i primi ad esserne consapevoli, i bipedi non vedranno mai quanto siamo "belli, belli, belli in modo assurdo!"
 
E alzare la voce per veder rispettato un diritto è un atto eroico, qualcosa da esibire, non da nascondere per timore di rappresaglie o di sembrare rompini!
 
Insomma, mettiamoci la faccia, perché non siamo disabili, siamo persone e, come tali, meritiamo di essere conosciuti e citati.
 
Ora, io sono una capra totale in materia di musica italiana da balera, ma ho dovuto cercarmi su internet chi fosse Facchinetti. Se l'articolo avesse parlato di me, avrei preferito leggere: "Cantante pop telefona ad Angela Gambirasio: risarcirà di tasca sua il danno subito".
 
Parlando dell'articolo sulle multe invece, proprio perché siamo disabili, ma mica scemi, fanno bene a multarci se scordiamo di esibire il cartellino invalidi sul parabrezza. Cara grazia anzi se ci becchiamo solo la multa, considerando quante brutte cose possono accadere ad un auto posteggiata abusivamente sullo stallo disabili. Non è che adesso ce le devono far passare tutte per buone solo perché non camminiamo: anche questa discriminazione!
 
E la disabile che non può andare in gita coi compagni di classe, "però si sono scusati"? Ecco, io con le scuse mi ci pulisco quando ho finito la carta igienica. Basta scuse: è ora di pretendere risarcimenti o immediate modifiche alla situazione. La scuola deve pagare in vile pecunia per quell'umiliazione, un'umiliazione che io stessa ho provato per anni durante le scuole e che altri continueranno a provare finché nessuno farà qualcosa per far capire che gli errori si pagano.
 
I "mi dispiace" non costano nulla: il portafogli di solito fa molto più male.
 
E il poveraccio che ha scritto un libro e viene citato solo come il tizio che scrive col mento? Fabio Volo scrive col culo, eppure lo citano per nome e cognome!
 
Questo per dire che, in futuro, voglio leggere molti più articoli così: dove chi fa qualcosa per migliorare la situazione dei disabili viene citato per nome e cognome e di lui si dice soprattutto che, oltre a non camminare e a rompere i coglioni, scrive pure dei libri... con la tastiera eh!
 
 
E il merito va al giornalista, Roberto Rotondo, che ha parlato innanzi tutto della persona: Simone Gambirasio, di 30 anni, che ha scritto 15 manuali informatici. Ringrazio Roberto per aver citato anche me per nome, senza specificare per fortuna l'età. Sarei stata più contenta se avesse pure scritto che, oltre a essere pendolare e ad avere la sfortuna di essere sorella di Simone, pure io ho scritto un libro... sì, uno solo, ma molto più divertente di quelli che scrive il secondogenito ;)
 
Scherzi a parte, comparire con nome e cognome, non è mania di protagonismo, magari farsi chiamare "Il boss delle rampe" un po' sì eh... ;)
Ma è necessario dare un nome e un volto alle persone che subiscono delle discriminazioni solo perché non camminano. O faremo la fine degli ebrei nell'Olocausto... se non hai un nome, è più facile negare che sia tutto vero.
 
Non siamo solo delle sedie a rotelle, ma persone che studiano, lavorano e amano il prossimo... purché non ci impedisca di fare tutto quanto scritto prima.
 
Sono contenta di aver fatto la mia piccolissima parte in questa vicenda, anche se non mi alletta l'idea di lavorare gratis, per di più con mio fratello, per aiutare SEA a migliorarsi. E però il risultato è evidente... quindi attenzione: non siamo tipi che accettano scuse, ma solo cambiamenti. Abbattete le barriere architettoniche altrimenti... altrimenti ci arrabbiamo!
 
E ora voglio anche io il mio nome d'arte... accetto suggerimenti. Magari non da mio marito, che mi chiama Rompicoglioni a rotelle.
 

mercoledì 15 gennaio 2014

Io sono una categoria protetta... alla cazzo di cane

Prima che vi accingiate a leggere questa pagina, sappiate che il problema è stato risolto, in meno di 24, grazie anche ai lettori del blog, che hanno fatto la loro parte.
Questo dimostra empiricamente che "rompere le palle" anziché subire in silenzio, serve.
Lascio questa pagina in memoria di un rapido risultato ottenuto in una battaglia combattuta per i disabili, non solo da disabili. E la lascio anche come monito, per chiunque proverà metterci i bastoni tra le ruote in futuro.

NON SIAMO QUATTRO POVERI SFIGATI CHE VIVONO IN UN MONDO A PARTE. SIAMO INTEGRATI IN UNA SOCIETA' CHE E' PIU' PRONTA A SCENDERE IN CAMPO DI QUANTO VORREBBERO DEI BUROCRATI OTTUSI.

Qui il link con le scuse di SEA: http://www3.varesenews.it/gallarate_malpensa/parcheggi-disabili-sea-si-scusa-e-trova-il-rimedio-279832.html

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Il titolo del blog di oggi contiene una parolaccia. Suppongo che ciò autoescluda dalla lettura un sacco di "persone per bene" e richiami invece qualche stronzo in più. Questo in effetti è precisamente ciò che spero, perché delle impressionabili "persone per bene" che ti stanno vicino, ma solo da lontano, francamente, non so che farmene. A me oggi serve gente che capisca il problema e non abbia tanta paura della propria ombra o, peggio, di sembrare "sgarbata", da non scrivere nemmeno una mail.

Ora, volendo potete saltare tutta la parte di sfogo e passare alla parte in blu, in cui vi spiego esattamente cosa fare per provare l'ebbrezza di aiutare davvero un disabile almeno una volta nella vita, senza cacciare un euro e senza la necessità di incontrarlo, che spesso siamo pure bruttini a vedersi.
Ma partiamo dall'inizio.
Ci sono persone davvero convinte che le categorie protette godano di un sacco di privilegi immeritati. Percepiamo un assegno di accompagnamento o addirittura una pensione senza aver mai lavorato, viaggiamo gratis su treni, metropolitane e bus, abbiamo borse di studio, posti d'impiego riservati e non paghiamo cinema e concerti.

Dei soldi che ci "regala" lo Stato parlerò dopo, così che possiate capire da soli cosa ci si pulisce un disabile con quella cifra, in considerazione delle spese aggiuntive che deve sostenere per il solo fatto di appartenere ad una categoria protetta dalla Governo italiano.

Grazie alla Carta Regionale dei trasporti, una persona in sedia a rotelle potrebbe viaggiare gratis su tutti i mezzi sotterranei e di superficie della Regione Lombardia. Il condizionale "potrebbe" è d'obbligo, perché trovare mezzi su cui può salire una sedia a rotelle è statisticamente più improbabile dell'essere miracolati da Padre Pio. Anche quando si trova, per esempio, un bus accessibile, per convincere il conducente a far salire un disabile, il disabile deve avere un accompagnatore che salga sul mezzo e dica all'autista (più o meno con le buone) di scendere per tirare fuori la pedana. Senza l'accompagnatore, l'autista non c'è verso che veda l'enorme carrozzina a motore da 112 chili che si piazza esattamente di fianco alla porta del conducente, acusticamente isolata solo dalle suppliche di un handicappato. Vien da pensare che ATM assuma solo categorie protette cieche per guidare i propri mezzi.
Come ho già detto molte volte, in sostanza Regione Lombardia ci permette di viaggiare gratis su mezzi di trasporto su cui non riusciamo fisicamente a salire. Io preferirei invece pagare il biglietto e salire, ma sono fatta strana eh!
Parliamo dello studio universitario e del fatto che se sei una categorie protetta praticamente non paghi le tasse e magari ti danno pure la borsa di studio. Sempre che tu in università riesca ad arrivarci e sia in grado di trattenere la pipì per tutta la durata delle lezioni. Molti atenei hanno dei bellissimi servizi di assistenza alla disabilità, che includono un non ben specificato servizio di accompagnamento e addirittura spesso pure di trasporto. Poi magari all'atto pratico scopri innanzi tutto che il pulmino per disabili è disponibile solo in alcuni giorni ed orari e sempre che tu riesca ad arrivare comunque da solo in una stazione vicina all'Ateneo. Ma se sono in grado di arrivare alla stazione vicina all'Ateneo, che cazzo me ne frega di fare gli ultimi chilometri su un mezzo per disabili? Sarebbe più onesto scrivere sul sito di tali servizi che solo i disabili milanesi possono frequentare un Ateneo milanese, ma mica tutti i giorni eh.
Metti che in Ateneo ci arrivi, perché sei di Milano o, più probabilmente perché hai genitori ed amici che ogni giorno si sobbarcano il viaggio, se pensi che i servizi di "accompagnamento alla persona" includano il portarti al cesso "alla bisogna", ti sbagli di grosso. Quando frequentavo io l'università, le alternative erano chiedere aiuto ai compagni di corso o il catetere. Non molto è cambiato purtroppo negli ultimi vent'anni. Salvo che le statistiche universitarie mostrano una scarsa affluenza di studenti disabili motori, mentre magari quelli psichiatrici vanno per la maggiore. Per forza! Per pensare di sfruttare i servizi di sostegno all'handicap di alcune università devi saper camminare o essere completamente matto.
Eppure persone come me e mio fratello si sono laureate. A quel punto non ci restava che accedere ad uno dei mitici "posti riservati alle categorie protette". Nel mio caso, il primo passo è stato trovare il tirocinio. E non ho detto "passo" a caso: avrei fatto meno fatica a tornare a camminare. Della lista di oltre cinquanta strutture ospitanti fornita allora dall'università Cattolica del Sacro Cuore, solo tre erano accessibili ad una sedia a rotelle, a patto di non andare in bagno. Una sola mi invitò a colloquio e mi prese: Telefono Azzurro. Ora, pur di lavorare una dice di tutto, incluso che ama i bambini. Dopo due dei sei mesi di tirocinio, mi spostarono dalla risposta telefonica ai bambini all'ufficio formazione, onde evitare che i bambini chiamassero la mamma per dire che un operatore di Telefono Azzurro li aveva minacciati di cose terribili solo perché volevano fare uno scherzo telefonico. Per mia fortuna e fortuna dei bambini, nella formazione degli adulti me la sono sempre cavata molto bene, tanto da essere l'unica delle dieci tirocinanti presenti a cui offrirono un contratto di collaborazione. Mica un'assunzione come categoria protetta, perché nelle Onlus i soldi vanno e vengono e, purtroppo, il personale deve andare e venire di conseguenza. Non c'era il bagno per disabili, ma avevo muscolose colleghe disposte a spaccarsi la schiena per sollevarmi da un cesso bassissimo, tipo quelli dei bambini delle elementari... bambini che sentivamo solo al telefono.
Finito il tirocinio, mi rivolsi all'Ufficio di Collocamento Mirato per cercare lavoro. Quando mi contattarono per un impiego di carico-scarico merci, fu subito evidente che, quando si trattava di abbinare domanda di lavoro ad offerta di disabili, l'Ufficio di Collocamento Mirato aveva una mira del cazzo.
Mentre continuavo a lavorare per Telefono azzurro come Co.co.co., spendendo in benzina ed assistenza molto più di quello che guadagnavo di stipendio, mi misi a inviare curriculum anche altrove. Dopo molte ricerche, qualche concorso ed alcuni colloqui  in cui risultavo la candidata migliore per uffici inaccessibili, mi venne finalmente offerto un posto come categoria protetta all'Università degli Studi di Milano. Mi danno addirittura assistenti alla persona che mi portano davvero al cesso ed un servizio di trasporto da Cadorna alla sede di lavoro, che funziona davvero bene per mesi e mesi... dopo ogni volta che sclero a livello internazionale per i periodi di disservizio.
Hanno contattato proprio me, perché col blocco delle assunzioni del comparto Università, non potevano assumere altro personale se non appartenente alle categorie protette. Ergo, non ho rubato il lavoro a nessun bipede. La selezione non è stata complessa, perché ero l'unica disabile laureata in psicologia disponibile. Che poi il mio attuale ufficio volesse mettere in piedi un servizio di consulenza psicologica con contatto telefonico e io avessi lavorato nel settore e scritto persino un manuale sull'argomento, era tutto grasso che colava. Strano semmai era che chiamassero una che non si regge in piedi per mettere in piedi un servizio.
Quindi spero che ora vi sia chiaro che se tanti disabili intelligenti non lavorano non è perché siamo tutti fancazzisti che vivono sulle spalle dello Stato, ma perché trovare un lavoro nonostante le barriere architettoniche è un miracolo. E non parlo nemmeno dei pregiudizi di chi potrebbe assumere un disabile e non lo fa perché pensa che siamo cagionevoli, abbiamo un sacco di permessi e infondo "produciamo" meno di un bipede. A sfatare tali barriere mentali, almeno bastano poche settimane di prova pratica: fateci lavorare come gli altri e poi decidete voi chi vi conviene lasciare a casa.
Eppure ad una presentazione del mio libro "Mi girano le ruote",  è capitato che uno degli intervenuti avesse osservato che un suo compagno di studio disabile fosse stato assunto al posto suo solo perché era, appunto, disabile.
Fatemi dire come stanno le cose fuori dai denti: se un disabile ha il vostro stesso titolo di laurea, è sicuramente più bravo di voi e lo dimostra il fatto che ha trovato il modo di studiare e arrivare a quel lavoro nonostante tutti gli ostacoli aggiuntivi che voi bipedi non avete mai dovuto affrontare. Chiunque non si muova per una città italiana stando su una sedia a rotelle, non può dire di sapere cos'è il problem solving.

Ma arriviamo al tempo libero, che visto che un disabile difficilmente riesce a studiare o lavorare, di quello spesso ne ha sin troppo.
Al cinema e ai concerti ci andiamo gratis, peccato che siamo gli unici a non poter prenotare quasi mai online o telefonicamente i biglietti. Cioè, siccome ho difficoltà di movimento, al bipede viene detto "Prenota la tua poltrona con un click", a me, che la poltrona me la porto perfino da casa, rispondono seccati: "Presentati alla biglietteria con largo anticipo, sperando che un altro handicappato non sia arrivato prima di te ad occupare l'unico posto in sala". Vero The Space Cinema di Tradate?
Con i concerti non va molto meglio: con TicketOne "Acquista ora online!", ma solo se cammini. Altrimenti devi fare una ricerca investigativa degna della CIA solo per capire a chi rivolgerti per provare a prenotare i quattro posti in croce riservati ai disabili. Io arrivo sempre troppo tardi, ma pazienza: significa che ci sono quattro disabili più svegli di me.
Io sono dieci anni che provo ad andare a sentire Springsteen e dopo l'ultima volta, osservando tutti i miei amici che acquistavano online alla faccia mia, ho deciso che se è destino che io veda dal vivo The Boss, sarà perché lui ha trovato il modo d'incontrarci!
In realtà tutte le cose descritte sopra sono molto più complesse di così, ma non ho mica tempo di scrivere un altro libro durante le due ore di viaggio per arrivare in ufficio e la pausa pranzo.
Arriviamo al dunque. Le categorie protette sono protette alla cazzo di cane. Lo Stato ci riconosce un sacco di privilegi che di fatto non possiamo riscuotere. E' un po' come se io promettessi di far camminare un paralitico purché riesca a raggiungere da solo il mio studio in cima all'Himalaya.
Facciamo così: toglieteci tutti i privilegi, persino l'assegno di accompagnamento da 499,27 euro con cui dovremmo pagare una persona che ci assiste giorno e notte, oltre al trasporto privato con furgone accessibile. La pidocchiosa pensione d'invalidità da 275,37 euro se la sono già ripresa perché, nonostante l'aiuto dello Stato, ho trovato un lavoro. Fateci pagare tutto quello che pagano i bipedi: ci sta bene se possiamo fare le stesse loro cose davvero, anziché solo sulla carta.

O almeno limitatevi a non cambiare le carte in tavola quando, nonostante tutto, troviamo il modo di farcela. Per esempio come è accaduto ieri a mio fratello, che ha dovuto pagare 29,50 euro per posteggiare su un parcheggio adibito a sosta disabili, solo perché, per andare al lavoro, non aveva altra scelta che salire sull'unico treno accessibile, facendosi portare in stazione da mio padre, che per inciso deve accompagnarlo sino a Milano ogni giorno solo perché Milano ha una pavimentazione disastrosa, marciapiedi senza scivoli e autisti di bus che altrimenti fingerebbero di non vederlo per non dover alzare il culo e tirare fuori la pedana.
Di seguito trovate la mail di mio fratello e gli indirizzi cui anche voi dovete inoltrare la vostra mail di indignazione. Perché ogni giorno mi spiegate via Facebook e Twitter quanto ci ammirate e quanto vorreste aiutare di più persone come noi: fatelo e millantate di meno. Ognuno dei miei post viene mediamente letto dalle 200 alle 600 persone. Se la metà dei lettori manderà una mail di protesta, magari non ci ignorano tutti.
So già che alcuni stanno per dire "tanto non serve a nulla". Anche se in passato vi ho già dimostrato il contrario, facciamo che stavolta ci provate pure voi, almeno così potrete vantarvi: "Visto che mi sono sbattuto a scrivere due righe e cliccare su invio, ma non è cambiato nulla?"

Ecco gli indirizzi con cui lamentarvi: info@apcoa.it; customercare@sea-aeroportimilano.it; my-link@trenord.it

E questa è la mail già scritta da Simone Gambirasio, perché mi sembra giusto che prima di chiedere giustizia conosciate i fatti a fondo:


Cari APCOA, SEA e Trenord. Scrivo a tutti e tre, mettendovi in copia. Così magari, dato che vi date la colpa a vicenda, potete anche parlarne tra voi e risolverla più velocemente.  Aggiungo anche in copia qualche amico giornalista, così per mettere un pochino di pepe. 
Parlando del mio lavoro, come forse già saprete, io sono un portatore d'handicap che vive a Cairate ma lavora a Milano. Come tanti altri faccio il pendolare, e prendo i treni ogni giorno per andare al lavoro. Solo che io non posso prendere proprio tutti i treni: no, solo alcuni, pochi pochi, perché non sono tutti accessibili (anzi). Di solito prendo il Malpensa Express da Busto Arsizio. Ma dato che mi piace lavorare a volte faccio tardi, capitano gli imprevisti, e devo tornare in orari in cui il Malpensa Express ferma esclusivamente a Malpensa. 
Mio padre parcheggia a Malpensa e viene a prendermi a Milano (perché anche a Milano i mezzi pubblici non sono realmente accessibili, ma è un'altra storia). Insieme a lui prendo un tram, un autobus e un treno. Dopo circa 1 ora e 45 minuti, se sono particolarmente fortunato, arrivo a Malpensa. E cosa scopro? Scopro che, dato che ho deciso di prendermi il "lusso" di parcheggiare nell'unica stazione accessibile a quell'ora in provincia di Varese, il parcheggio per disabili (quello giallo e contrassegnato) lo devo pagare. Lo pago, per essere precisi, la bellezza di 39,50€. 
Non è la prima volta. Mi ero già lamentato il 21 giugno 2013 in una lettera a VareseNews, ma non mi avete mai risposto.
Perché pago? Perché da qualche mese SEA e APCOA hanno deciso che se un portatore d'handicap non prende l'aereo ma il treno, allora deve pagare il parcheggio. Parcheggio, lo ripeto, per portatori d'handicap, contrassegnato. E io, modestamente, il mio contrassegno per portatori d'handicap al 100% ce l'ho. Ma pago lo stesso, già. 
Pensavo che dopo la mia lettera a VareseNews qualcosa fosse cambiato. E invece no, niente. Oggi, dopo essere stato in giro per lavoro a Milano dalle 7 alle 22, quando ho provato a prendere la mia auto in Malpensa per tornare a casa, mi avete chiesto 30€. Ho fatto chiamare il responsabile di APCOA due volte, e la prima volta mi ha detto che devo pagare. Alla seconda, quando ha scoperto che di lavoro ho fatto anche il giornalista, mi ha detto che al massimo posso fare insolvenza, e poi chiamare SEA. 
Io, perdonatemi, ero stanco, volevo andare a casa. Ho pagato 29,50€ e me ne sono andato. Ma è davvero normale che a Malpensa non ci sia un parcheggio gratuito per portatori d'handicap che prendono il treno? Devo davvero pagare così tanto per fermarmi in una stazione nella quale, in realtà, sono costretto a fermarmi?
Non voglio indietro i miei soldi, non voglio le scuse (non che mi siano mai arrivate, da nessuno). Voglio solo che poniate fine a una situazione imbarazzante che mette seriamente in dubbio la vostra intelligenza. Per non pagare un parcheggio, che mi spetta di diritto (DM 236, art 8.2.3), devo lottare strenuamente, al punto che mi viene suggerito di lamentarmi con SEA, Apcoa, Trenord e non saprei chi altro (ma aggiungeteli pure voi in copia, nel caso). Devo consegnare documentazione ridondante, tra cui una carta d'identità, due firme e un biglietto aereo per l'Isola che non c'è. Firme che, tra l'altro, devo fare sulle ginocchia perché lo sportello di APCOA non è accessibile. Per prendere parcheggi che, spesso, sono occupati da spazzatura o (non ci crederete) mi è anche capitato di vedere carrelli o cavi o sacchetti non meglio definiti. No no, meglio che i disabili paghino, mica che vi rubino abusivamente i parcheggi che voi state usando per qualcosa di veramente serio. 
Cordialmente,
un vostro affezionatissimo utente
Simone Gambirasio

(1) Così, giusto per ricordarvelo, la legge dice: "Nelle aree di parcheggio devono comunque essere previsti, nella misura minima di 1 ogni 50 o frazione di 50, posti auto di larghezza non inferiore a m 3,20, e riservati gratuitamente ai veicoli al servizio di persone disabili.". 
Dice "GRATUITAMENTE", stranamente non si parla di biglietti aerei, carte d'identità e obbligo di scrivere articoli di giornale per ottenere i rimborsi. Che buffa la legge, vero?






sabato 4 gennaio 2014

Buoni spropositi per il nuovo anno

Il primo gennaio 2014 mi trovavo alla Triennale di Milano anziché in terapia intensiva, come accadde nel 2013: io questo lo chiamo un inizio promettente.

Per quanto l'enorme balena di peluche di Nedko Solakov sia affascinante, sono però sicura di non averla fissata tanto intensamente e con tanto pathos, quanto il monitor che il primo gennaio 2013 misurava i parametri cardiaci di mia madre. Poi dicono che l'arte sia coinvolgente!

Insomma, il 2014 è iniziato in sordina, ma chiunque dica di desiderare una vita piena di forti emozioni, dovrebbe specificare meglio di che tipo… metti che i desideri si avverino.

A giudicare dai post di parenti e amici su Facebook, questo deve essere il periodo dei bilanci in negativo, dei buoni propositi e delle promesse di cambiamento. Io invece vorrei che, per un po', tutto rimanesse come sta. Non che stia vivendo una vita sempre divertente, entusiasmante e felice, ma conosco abbastanza bene il lato oscuro dell'esistenza da voler provare ad aggrappami a quello che ho e che non vorrei mai perdere. Certo lo dico oggi, appena uscita dal lettone e con una tazza di tè fumante qui accanto. So benissimo che dopo un paio di settimane di routine lavorativa e casalinga, comincerò a lamentarmi per il fatto che non accade nulla, dimenticandomi che il "non accade nulla" è precisamente ciò che ha reso così gradevoli questi primi giorni del 2014.

Nella vita mi è capitato spesso di fermarmi consapevolmente un attimo, per cristallizzare alcuni pensieri nella mia memoria. Ricordo che la prima volta avvenne alla fine delle superiori. Ero incredibilmente triste per la consapevolezza che non avrei più rivisto giorno dopo giorno i professori che stimavo tanto e, immersa nella disperazione di tetre previsioni future, presi questo appunto mentale: "Devo ricordarmi che questo è il periodo più felice della mia vita, anche se tra qualche anno potrà sembrarmi diversamente. Prometto che continuerò a scrivere per sempre alle mie prof., anche se loro dicono che non accadrà. Non rinuncerò nemmeno ad un incontro con gli amici dell'oratorio per l'università e continuerò il mio impegno nella Chiesa e nella catechesi dei più piccoli". 

Oggi, più che una promessa, sembra una minaccia.
Per fortuna la vita ha spesso mandato a monte i miei buoni propositi!

Ogni volta che ripenso alla mia adolescenza, riesco solo a ricordare amici che facevano alcune attività con me e altre tra loro, perché infondo io ero una "buona azione" e poi forse il divertimento vero cominciava dopo avermi sbolognato. Allora sentivo di dover essere grata per ciò che mi davano e di dovermi sentire in colpa perché volevo essere come loro, con loro, anche dopo che mi avevano riaccompagnata a casa per continuare la serata. Ricordo il disinteresse per tutto ciò che non fosse "intellettuale" e palloso, le liti furibonde con i miei genitori, la loro incapacità di comprendere quando invece comprendevano fin troppo e il piacere di non staccare mai la testa dai libri.

Praticamente ero l'incarnazione del mio attuale peggiore incubo, eppure pensavo di sentirmi felice. 

Ho letto cose che avrebbero fatto assopire furetti sotto anfetamina, visto film francesi di ogni colore, studiato l'esegesi di decaloghi di celluloide, sino a perdere ogni senso del senso nella cinematografia russa e polacca. Leopardi era il mio migliore amico e insieme formavamo una gran bella coppia di sfigati, convinti che i coetanei ci evitassero per le nostre deformità anziché per il fatto che eravamo due piattole cosmiche e culturalmente snob.

Direi che di strada ne ho fatta molta, se penso che il film più impegnato che ho visto di recente è stato "Star Trek into darkness" e la lettura più religiosa "Il Vangelo secondo Biff. Amico d'infanzia di Gesù". Inutile dire che ora sarò pure più capra, ma ho molti più amici di prima.

All'epoca ero un po' come Hachiko: un'eroina intoccabile con tragici sogni irrealizzabili, seduta nei pressi della stazione, ad aspettare di salire su un treno che dentro di me sapevo non sarebbe arrivato mai. Volevo stare dove stavo: perché ero certa che il futuro non avesse in serbo altro. 
Cacchio se mi sbagliavo, soprattutto in fatto di treni!

Eppure una parte di me era così avanti da sapere cosa avrei pensato del mio Fantasma del Natale passato e da lasciarmi un chiaro messaggio stampato nella memoria: "Questo è il periodo più felice della mia vita…". Per quanto ora mi sembri l'esatto contrario, chi sono io per contraddirmi?

E poi arrivò il temuto periodo universitario, quello che molti ricordano per lo studio matto e disperatissimo e che invece per me fu una pacchia assoluta. Avevo studiato tanto e con tale accanimento dalle suore, che all'università non mi pareva vero di dover affrontare una sola materia alla volta. Fu l'epoca delle amicizie eterne finché durano, dei viaggi, delle interminabili uscite in cui non ci si stancava mai di parlare dei grandi temi della vita e di Harrison Ford. E così presi un altro appunto mentale: "Alle superiori mi sbagliavo: questo è il periodo più felice della mia vita! Ho i miei amici, i soldi della pensione d'invalidità e della borsa di studio, nessuna spesa, tanti viaggi, nessuna responsabilità se non superare degli esami, che fingo di trovare difficili solo per non far capire a mamma e papà quale cuccagna sia."
Ecco, quell'appunto mentale lo trovo già più credibile, sebbene non vi sia alcuna traccia della disperazione ormonale che provavo per il fatto di essere sempre perdutamente innamorata, come tutte le ragazze di quell'età, senza mai trovare un ragazzotto con le palle necessarie e sufficienti a provarci con una tizia in sedia a rotelle che si vestiva col minimo sindacale di tessuto.
A confronto del mio guardaroba dell'epoca, oggi sembro una suora di clausura.
Ci provavo con tutti: l'unica cosa al mondo che non avrei mai permesso accadesse, era morire vergine. Per fortuna, dal terzo anno di psicologia, le miei amicizie si spostarono dai bravi ragazzi dell'oratorio a quelli decisamente cattivi: quelli che mi facevano bere cose col nome di armi di distruzione, che mi proponevano di fare "un tiro" di altre per cui mia madre mi avrebbe rinchiusa in camera ingoiando la chiave e che non mi riportavano a casa alle dieci perché mi scappava la pipì, ma me la facevano fare, ovunque si fosse. E non uno che approfittasse della situazione, merda!
Ma col tempo arrivarono anche i "morosi", più o meno ufficiali: sani, belli, pragmatici come solo una scuola professionale sa sfornarne e disposti a chiudere un occhio sulla carrozzina pur di poter aprire l'altro sulla scollatura. E così, a ventitré anni, con una laurea in mano, il tirocinio finito, un sacco di amici fissi e un moroso a rotazione, presi l'ennesimo appunto mentale: "Questo è l'apice della mia vita: bella e brillante come ora non potrò mai più esserlo: goditela finché puoi, perché appena qui intorno cominceranno a farsi una famiglia, per te sarà finita."

In effetti ora qualche ruga ce l'ho… ed è al contempo rassicurante ed irritante per una cui era stata data la certezza di non doversi mai procurare creme al collagene pur di rimandare il tracollo gravitazionale.

Ma per fortuna quello non era l'apice della mia vita e non lo è stato nemmeno il proposito di qualche anno dopo, di dedicarmi completamente al lavoro e ricercare in esso la fonte della mia realizzazione personale.

Mi sono sposata, senza nemmeno crederci troppo: se va va. E ora non saprei cosa fare senza questo tizio che dorme nel mio stesso letto, mangia tonnellate di cibo che non posso nemmeno guardare, russa e lascia una marea di scarpe in giro per la casa di una come me, che non ha mai saputo bene dove infilarsele ste scarpe che pare obbligatorio indossare pure se non cammini. Sì, nove anni di convivenza con lo stesso tizio che non cambierà mai le piccole cose che vorrei proprio cambiasse, ma nemmeno in quelle tipo che si alza senza fare una piega ogni volta che nel cuore della notte "Amore, mi scappa la pipì."

Una volta lessi in un libro che alcune persone è come se trascorressero la vita dormendo, quasi inconsapevoli di sé e delle cose che passano, finché un giorno, magari dopo anni, si guardano allo specchio, scoprendosi improvvisamente vecchi, con anni alle spalle di cui non hanno fermato un solo istante, piene di sgomento per il tempo trascorso lasciando che la vita li vivesse. La routine fatta di gesti sempre uguali a se stessi, capace di rubarci intere giornate di vita, se non mesi o anni, in cui ogni giorno si confonde con gli altri, privandoli di qualsiasi importanza.
Ne ho passati anche io di periodi così e il brutto è che te ne accorgi solo quando hai ricominciato a vivere. Allora ti chiedi: chi mi restituirà tutte le ore in cui ho perso la consapevolezza di me mietendo raccolti virtuali? Quando sarò immobile in un letto, come farò a non maledirmi per i giorni trascorsi a vedere pessima TV pur avendo ancora le forze per uscire di casa? Quando sentirò il Triste Mietitore alitarmi sul collo dopo essersi mangiato il mio fegato alla vicentina, quanto mi sembrerà stupido aver buttato intere giornate cercando di far passare il tempo?

La maggior parte delle volte viviamo rimpiangendo il passato o aspettando il futuro. Spesso la nostra testa sta semplicemente da un'altra parte, anziché dove dovrebbe stare: qui ed ora.

Oggi prenderò un'altro dei miei promemoria mentali, ma facciamo che me lo scrivo, perché l'età avanza e la memoria fa cilecca: "Il 2013 è iniziato di merda, ma poi è stato l'anno migliore di sempre. Mi ha fatto capire che non devo dare per scontate le persone che amo e che la realizzazione personale non si può trovare dietro una scrivania. Soprattutto, il 2013 mi ha dimostrato che le cose più sorprendenti della vita accadono a qualsiasi età, purché si sia disposti a vivere da svegli e a dire qualche sì insolito, senza rimuginarci troppo e porsi problemi che potrebbero non presentarsi mai. Ora mi sembra che questo sia il periodo più bello della mia vita, ma spero di sbagliarmi… come al solito."

Oh, di buoni propositi in passato ne ho fatti tanti, ma per fortuna la vita aveva progetti differenti per me.


Non sono tipo che dà consigli, ma oggi mi sento un po' Guru e quindi farò un'eccezione.

Fate progetti e ponetevi degli obiettivi, ma se potrà capitare che uno dei vostri sogni s'infranga, seppellitelo con dignità e tenete gli occhi bene aperti sullo scorre del tempo e sulle decine di piccole cose che ogni giorno accadono intorno a noi. Non dite di no, solo perché non era in programma: spesso un po' di soddisfazione la si trova dove non la si stava cercando e, ancor più spesso, il realizzarsi di un vecchio sogno può diventare il nostro incubo peggiore. 


La "Balena" di Nedko Solakov, esposta alla Triennale. L'unico modo per scorgere la luminiosa luna celata nel suo ventre, è mettersi col culo all'aria… oppure convincere un bipede a farlo per te, per scattare una foto del suo interno, dato che tu, povera disabile, non puoi metterti carponi. La foto di sopra è stata scattata il 1° gennaio 2014 e dimostra che i bipedi ci cascano sempre, anche se sono tuoi parenti stretti.