venerdì 29 marzo 2013

Improbabili performance radiofoniche

Le persone che mi seguono su Twitter sono così prive di preconcetti da non farsi nemmeno venire il dubbio che una che non cammina possa comunque esprimersi bene oralmente.
Così mi hanno chiesto se fossi disposta a un'intervista radiofonica.
 
Nulla come riascoltare la propria voce registrata riesce a renderti dolorosamente consapevole del fatto che tutte quelle ore di logoterapia da bambina non sono state un buon investimento e la colpa non è certo del logoterapista.
 
Pare sia stato @dontommaso a raccomandarmi caldamente per l'intervista e ciò dimostra una volta di più che non bisogna fidarsi dei preti.
 
Ad ogni modo, se vi interessa sapere perchè twitto, cosa ne penso del deambulare, di Trenord, di Dio... o semplicemente se volete sapere che voce ha una posseduta dal demonio, potete cliccare sul link a fondo pagina.
 
Ecco, magari non perdetervi il messaggio sociale che parte a 1:13:00. So cosa state pensando: pure io le interviste me le immaginavo più brevi.
 
Colgo l'occasione per scusarmi con @tiemme84 e @faipresto per la mia rotacica prolissità.
 
 
 

mercoledì 27 marzo 2013

Saggezza popolare dei miei stivali

Tutti sono convinti che io ce l’abbia coi vecchi, ma la verità è che sono i vecchi ad avercela con me. Quando sono al supermercato, mi fissano come fossi un’aliena sulla sua astronave  e non abbassano lo sguardo nemmeno davanti alla mia espressione alla Clint Heastwood.
 
Pensatela come volete, ma per me questa è maleducazione.
 
Gli anziani si trincerano dietro il “vedere ma non toccare” e pensano che finché non allungano la manina vada tutto bene.  
 
E invece no.
 
I disabili sono stufi dell’occhio che vuole la sua parte e della saggezza popolare in generale.
 
Ammettiamolo: la saggezza popolare è una stronzata.
 
I proverbi sono un’accozzaglia di luoghi comuni misogini, ove le donne sono votate alla sofferenza pur di apparire belle e vengono trattate alla stregua di bovini di razza chianina.
 
Se sei disabile poi, i proverbi possono rovinarti la vita.
 
Pur d’imparare a zoppicare, sono andata con un sacco di amici zoppi. Beh, ultima notizia: ancora nessun miglioramento!
 
E la storia della gatta frettolosa che ha fatto i gattini ciechi? Già è difficile avere un figlio non vedente, figurati se poi quello è convinto che il suo handicap sia imputabile a una madre sbrigativa!
 
Vogliamo parlare delle mele? Io ho trascorso l’infanzia in ospedale e so per certo che i medici se ne strafregano di quante ne mangi al giorno: ti stanno intorno lo stesso.
 
Dunque, non sono mai stata un’estimatrice dei vegliardi, ma è più colpa loro che mia. Son loro che si sono inventati questi detti in cui tutte le persone un po’ fuori dalla norma sono associate a cose sbagliate.
 
Le bugie non hanno le gambe corte: quelli sono i nani che, per la cronaca, non vanno sempre in giro in gruppi di sette, non stanno volentieri in giardino e, se sono femmine, non hanno una patata gigantesca in cui fanno rintanare chiunque.
 
Non tutte le persone amputate sono andate al lardo insieme al proverbiale gatto monco.
 
Chi tace non sempre acconsente: forse è semplicemente muto.
 
Magari il riso non abbonda solo sulla bocca degli stolti: magari è un ictus!
 
Se pensi che non ci sia peggior sordo di chi non vuol sentire, è solo perché non frequenti abbastanza audiolesi.
 
L’amore non è cieco, e nemmeno l’odio o la furia lo sono: son tutti falsi invalidi.
 
Tra l’altro, se ritieni che procedere alla cieca sia una cosa goffa, probabilmente non hai mai visto un non vedente nato andare in giro col bastone. Ne conosco alcuni che vanno persino in bicicletta.
 
Se la mamma comprende il figlio muto è solo perché lei si è messa a studiare il linguaggio dei segni, mica come te.
 
“Prigione e malattia, chiedono compagnia”… ti sembra carino essere accomunata a degli avanzi di galera? Perché i vecchi infondo sono convinti che se, siamo così, ce la siamo cercata.
 
Secondo loro dovremmo accoppiarci tutti tra storpi, perché chi si assomiglia si piglia. Peccato che il sesso tra due che non si reggono in piedi presenti complicazioni considerevoli. Ah già! Dimenticavo: per la tradizione popolare, i disabili sono tipo angeli asessuati, che certe cose non le pensano, figurati se le fanno.
 
La verità è che la tradizione popolare giudica tutto, in modo insensibile: gente capace di dire a uno col peacemaker che al cuor non si comanda.
 
Prova ad andare a Lourdes a dire: mal comune, mezzo gaudio!
 
Spiegalo tu a quelli come Welby che finché c’è vita c’è speranza e poi dimmi dove ti mandano esattamente.
 
E non è mica vero che sbagliando s’impara, altrimenti i proverbi  discriminanti li avrebbero cambiati.
 
Ma la verità è che non ce l’ho coi proverbi e nemmeno coi vecchi … almeno non con quelli che al supermercato si fanno i fatti loro.
 
Ce l’ho con chi usa i proverbi come risposte ai problemi delle persone.
 
Chi ha subito un lutto, l’ultima cosa che vuol sentirsi dire è che il tempo guarisce tutte le ferite: sta male in quel momento e non è che si senta bene all’idea che, chissà quando, andrà meglio.
 
Chi è stato mollato, non vuole saperne di usare un altro chiodo per scacciare il primo chiodo: vuole solo la zuppa riscaldata, anche se a te fa schifo.
 
Chi ha perso il lavoro, probabilmente ha più bisogno di un bilancio di competenze che di star lì a pensare a porte che si chiudono alle proprie spalle per lasciare il posto a fantomatici portoni immaginari.
 
A chi è andato tutto in fumo dopo grandi sforzi, prova a dire che l’uomo propone e Dio dispone, poi lamentati che il Suo nome viene pronunciato in vano.
 
Quando le persone ci parlano dei loro tormenti, non lo fanno in cerca di facili risposte che potrebbe dare una bravissima portinaia. Sanno anche loro che a volte non esistono risposte, ma condividere il peso con qualcuno spesso è sufficiente.

Se non sapete cosa dire, non dite niente: tirate fuori le palle e offrite un abbraccio.

martedì 19 marzo 2013

Se non sai chi è il tuo vero Papà ...

So che ho fatto preoccupare alcuni di voi ieri, così oggi, visto che c’è il sole e tutto ha un colore, voglio regalare al vostro e al mio papà qualche pensiero. Ovviamente poi io non li leggerò mai al mio papà, perché ad alcune persone gli vuoi così bene che sarebbe banale dirlo. Ma voi fate come credete: suppongo che mica tutti siate stati tirati su da una mamma che pare la sorella tosta del Sergente Hartman.

Si dice “Mater certa est, pater nunquam” (la madre è sempre certa, il padre mai). Se per caso aveste dei dubbi su chi sia vostro padre, permettetevi di descrivervene uno.
Il Papà è quello che se deve proprio dire no, dice “Chiedilo a mamma” oppure, è quello che dice sì, “ma non dirlo a mamma”.

Il Papà è quello che se non sa una cosa, s’inventa storie fantastiche, che per anni mineranno le tue conoscenze di fisica, biologia e zoologia, come la faccenda del latte Gallo, che si chiama così perché ottenuto dalla mungitura dei polli maschi.

Il Papà è quello che passa la notte di Natale a montarti il trenino e quando gli chiedi di farti provare dice “Ancora un attimo dai…”

Il Papà è quello che si chiude a giocare a PacMan in camera tua fino a notte fonda e quando gli dici che hai scuola, s’imbroncia perché sta facendo il record.

Il Papà è quello che magari una volta o due si dimentica di venire a prenderti a scuola, ma morire se a mezzanotte spaccata non è fuori dalla discoteca a prenderti.

Il Papà è quello che alla tua laurea mica piange: ha qualcosa nell’occhio.

Il Papà è quello che al tuo matrimonio singhiozza perché ha la congiuntivite, ma non chiederebbe mai il legittimo impedimento.

Il Papà è quello che ti prenderebbe sulle spallucce anche oggi, se tu non glielo impedissi.

Il Papà è il tizio che salta la staccionata per farti vedere che è ancora giovane e poi dice “Chiama mamma, che mi sono fatto male”.

Il Papà è il tizio che non vuole regali, ma se proprio insisti per fargliene uno, che non costi più di cinque euro.
Il Papà è quello che borbotta come una pentola di fagioli, ma guai a dirgli “Allora lascia stare che mi arrangio”.

Il Papà è quello che gongola mentre ti fa i lavoretti in casa, solo perché gli hai detto: “Sai, mio marito non è capace”.
Il Papà è il tizio che, per non si sa quale difetto neurale, sorride come un ebete se lo chiami “Papino”.

Il Papà è quello che ti dice “Dai piccola” anche se sei alta 1,75.

Il Papà è il tizio che dimentica ovunque le chiavi, ma che se vede un Ovetto Kinder si ricorda di te e lo compra, anche se sei prossima alla menopausa.

Il Papà è quello che continua a riferirsi a te come “La bambina”, anche quando hai superato i 35 anni.
Il Papà è quello che viene a pranzo dove lavori e, siccome paghi tu, ordina il coperto.

Il Papà è il tizio che ti darebbe l’ultima patatina fritta che ha nel piatto, senza fare a metà come tuo marito.
Il Papà è quello a cui devi stare attenta cosa chiedi, perché farebbe di tutto per darti anche quello che non ha.

Il Papà è questo e molto altro ancora, ma se il vostro Papà è come il mio, non diteglielo, che la congiuntivite cronica è una brutta roba.

lunedì 18 marzo 2013

Troppo triste per essere io

Il più grande problema per uno psicologo è la depressione: non quella degli altri, la propria.

Non sono quel genere di counselor che i depressi deve curarli, perché non credo saprei essere convincente sul lungo periodo. Per fortuna, fra le altre cose, mi occupo solo d’invio: ascolta, comprendi, tampona la crisi e prenota un appuntamento col terapeuta più adatto. Il tutto in quindici minuti di scambio telefonico: sono un pit stop con abilitazione psicologica.
Di solito, il mio lavoro non mi dispiace.
Ci sono dei giorni però, quando non settimane, in cui tutto sembra perdere senso. Ciò che fai e che fino a ieri sembrava importante, inizi a chiederti se serva davvero a qualcosa. E quando si comincia a dubitare di quello che si fa, il passo per cominciare a chiedersi che senso abbia non solo la vita, ma l’universo intero, è breve.
Per fortuna trascorriamo la maggior parte delle nostre esistenze senza porci grandi domande: siamo così impegnati a vivere da non avere il tempo per riflettere su come lo stiamo facendo. Sono i periodi della vita in cui sei “carico” o arrabbiato, soddisfatto o battagliero, ma comunque non triste.
Abbiamo tutti paura di essere tristi e facciamo di tutto per non esserlo, anche a costo di stordirci di nulla.
Eppure la tristezza può anche essere occasione di cambiamento. Per quanto la strada sembri buia e non si riesca a intravedere l’uscita, il dolore ci rende consapevoli di essere vivi.
Oggi mi sento come quel giorno da bambina, in cui mi risvegliai dall’intervento. Ero davvero piccola, eppure me lo ricordo chiaramente: un attimo prima l’infermiera mi diceva che avrei sentito un pizzico e io mi sforzavo di non chiudere gli occhi, per dimostrare che potevo non addormentarmi. Solo da bambini si può pensare che sia fiko rimanere svegli durante un intervento. Per fortuna, l’anestesia ebbe la meglio e un attimo dopo mi svegliai in un posto freddo, con troppa luce, nessuno accanto e l’horror vacui nel cuore. La cosa mi parve così insostenibile che richiusi gli occhi per non vedere tutto quel verde sfocato intorno a me. Sarà forse per quello che odio il verde? Probabile. Mi risvegliai in camera, con la flebo attaccata e la mamma accanto. Sebbene avessi sempre sopportato di tutto come una "brava soldatina", avevo l’impressione che il braccio bruciasse e dentro una rabbia che mai ho riprovato in vita mia. Con sommo stupore di tutti, iniziai a urlare e a provare a strapparmi tutti quei tubicini. Ricordo mamma che mi sgridava e un’infermiera in sottofondo che diceva: “E’ l’effetto dell’anestesia”. Mi tolsero la flebo, ma già sentir dire che quella non ero io, ma l’anestesia, servì a calmarmi.
Quando sento parlare a un cinquenne come se fosse un deficiente, mi ricordo cosa pensavo io a quell’età e non posso non scambiare uno sguardo d’intesa col marmocchio.
Oggi mi sento un po’ così: guardo quello che ho fatto, quello che faccio e vedo tutto verde sfocato. Mi sembra che, alla fine, nulla valga.
Vorrei che cambiasse qualcosa, un nuovo obiettivo, un amore più grande … ma non vedo come.
Così aspetto: aspetto Godot.
E per un attimo questa mattina mi sono chiesta: perché alzarsi dal letto?
Lo svantaggio di essere disabili è essenzialmente che dal letto ti ci alzano, spesso che tu lo voglia o meno.
E ti caricano su un treno, come sempre in ritardo, come sempre carico di umanità ben poco sorridente.
E nevica. Il treno è in ritardo e io non mi agito: non m’importa. So che a breve chiamerà l’autista per dirmi che se non arrivo in stazione entro dieci minuti, lui non potrà aspettarmi. So che dovrebbe essere un problema, ma non m’importa.
Ma il treno arriva e io salgo appena in tempo sul furgone per disabili, diretta al lavoro.
Metto un tè nel microonde, i colleghi salutano, ricambio senza nemmeno sforzarmi troppo di sorridere: a che serve?
Poi suona il telefono. Per un po’ lo  lascio squillare, supplicando mentalmente: “No, dai, non ora. Ho già i miei di problemi”.
Che problemi poi? Nessuno oggi: forse è quello il problema.
La collega prende la mia chiamata e dopo un minuto me la passa, perché di là dal telefono, piangono. Se piangono sono miei: non si sa chi l’ha deciso, ma è così.
Maledico mentalmente chi sta all’altro capo, ma rispondo. La persona al telefono pare tranquilla, chiede se io sono io e appena dico sì, ricomincia a piangere.
Succede sempre. Ogni volta che mi sento depressa e accarezzo l’idea di mettermi in un angolino tranquillo per passare inosservata, chiama qualcuno che aspettava solo me per liberarsi del peso di un fiume di lacrime. Non importa che io non sia “quel genere di psicologa” che aiuta a sentirsi meglio: non fossero completamente atei e avessero davanti un prete, farebbero altrettanto … e ciò è alquanto avvilente. Io ho studiato per ascoltare meglio, non come il lupo di Cappuccetto Rosso, che con le orecchie grandi ci è nato!
Ma la verità è che non sono gli studi di psicologia ad aiutarti a capire come le persone si sentono in certi momenti, ma il fatto di ricordarteli, di averli superati e di sapere che, anche quando tornano, non è mai “per sempre”.
E quelle parole che non sei stata capace di trovare per te tutta la mattina, riesci a dirle a un altro, senza sforzo alcuno, senza nemmeno pensarci.
Ti escono di bocca come fossero state sempre lì.
Ma ciò che le rende efficaci è il fatto che capisci davvero cosa l’altra persona sta provando: è qualcosa che esce dal tuo cuore e finalmente entra nella tua mente, spogliandosi del suo carico emotivo. Forse solo perché qualcun altro sta piangendo anche per te o forse perché l’essere di supporto a un altro e l’unica vera via per non essere infelici.
Il pianto iniziale si trasforma in un “Grazie, mi sento già meglio” e sono passati poco più di quindici minuti al telefono. Non lo guardo mai l'orologio, ma chissà perchè, essere ascoltati quindici minuti spesso basta. E mentre lei dice “Mi sento già meglio”, ti accorgi di stare un po’ meglio anche tu.
Vi sembro troppo smielata se dico che per me essere depressi significa pensare di non servire a nessuno?
Sono ancora triste, ma un po’ meno. Un altro paio di persone disperate e potrei pure cominciare a sorridere, ma solo se poi si sentono meglio.
Che volete farci: ci sono giorni in cui anche io avrei bisogno dell’abbraccio di uno sconosciuto. Qualcuno capace di provare quello che provo io, ma che non mi sia così vicino da soffrirne.
Volontari?

giovedì 14 marzo 2013

Caro Papa ti scrivo, così ti consiglio un po'

Ieri sera proprio non ho resistito a seguire la diretta TV del PapaDay, un po’ su Twitter, un po’ su SkyTG24. Anzi, ho pure invitato delle amiche, ordinato del sushi e stappato diverse bottiglie.
Fra amici, in questi giorni, non ci siamo certo risparmiati in battute, pronostici e cazzate: chi minacciava di passare dall’ateismo al satanismo se avessero eletto Scola, chi meno drasticamente sarebbe diventata protestante, non sentendosela ancora di rinunciare all’idea di un qualcosa dopo la morte.

Che fossimo credenti o no, ognuno aveva il proprio slogan, da “W Sqola con la q!” a “O’Malley o morte!” (@DanieleDeGan).

In famiglia siamo tutti atei, eppure del Papa, a quanto pare, ce ne frega lo stesso.

Mia madre, che non mi telefona nemmeno quando la stanno portando in ospedale per un infarto in corso, mi ha chiamata sul cellulare:
“Habemum Papam!

Ho capito che pure io ero emozionata solo quando mi sono resa conto di averle detto: “Aspettiamo a festeggiare, che potrebbe essere Scola”, anziché: “Mamma, da quando in qua la prima persona plurale di habeo finisce in um?!”

La conosco da anni ormai, eppure mamma riesce ancora a stupirmi: come quando ai 60 suonati inviò il suo primo sms con delle emoticons, senza che nessuno le avesse mai spiegato cosa fossero; o come quando si mette a discutere con Siri; o ti chiama al cellulare solo per informarti che la Chiesa Cattolica Apostolica Romana ha un nuovo capo.

Mia madre è la persona che più rispetto a questo mondo. L’unica che abbia sempre creduto potessi fare quello che fanno tutti gli altri e l’unica capace di farmi venire dei dubbi quando voglio fare qualcosa più degli altri. Se lei ti dice che “Non è niente” o che “Quando sarà il momento, in qualche modo si farà”, non puoi non crederci.

Il problema è che mamma ha sempre creduto nei suoi figli, ma non nel figlio di Dio.
E così a casa siamo tutti atei quasi convinti, ma del Papa, a quanto pare, ce ne frega lo stesso.

Nell’interminabile attesa tra la fumata bianca e la comparsata del nuovo Papa sul balcone, io e i miei ospiti ci siamo lanciati in dispute vaticaniste, pronostici e battutacce: avevamo favoriti diversi, ma tutti eravamo concordi sul fatto che non ci piacesse il Cardinal Angelo Scola, che manco sapevamo chi fosse fino all’altro ieri.

Il sangue ci si è gelato nelle vene quando mio marito ha chiesto: “Ma suonano l’inno di Mameli perché sanno già che il Papa sarà italiano?”

La tensione cresceva, il Papa non s'affacciava.
Nessuno avrebbe ammesso che c’era un po’ di elettricità nell’aria, così ci si dedicava alle freddure e ai cori da stadio:

 “Da quanto ci mette a vestirsi, stavolta potrebbe essere una donna.”
“Oilele, OiPapa, faccelo vedè, faccelo toccà!”

"Affacciati alla finesta, Papa mio..."

“Papa, sappiamo che sei dietro quella tenda: esci con le mani in alto!”
“Non Serpeverde, non Serpeverde, non Serpeverde…”

“Giuro che se non esce, faccio un monumento a Nanni Moretti!”
Diciamo sempre di non credere nei miracoli, eppure la Chiesa è l’unica che riesce concentrare l’attenzione di milioni di persone per giorni interi su un comignolo e una tenda.

Ed eccolo lì, bello come il sole (questa sì che è licenza poetica!), il Protodiacono Jean-Louis Tauran che fa il suo annuncio con la voce tonante del Canarino Titti:

Annuntio vobis gaudium magnum;
habemus Papam:
Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Georgium Marium Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio qui sibi nomen imposuit Franciscum

Non saprei dire se fossi più sollevata dal sentire pronunciare intere locuzioni latine nel rispetto di desinenze e coniugazioni, o per il fatto che le prime lettere del nome papale non fossero “Sc”.
Onestamente, avrei pensato finisse tutto lì. I cattolici avevano un Papa nuovo di zecca: uno che manco avevo sentito nominare. Chi sarà mai questo Mario? Andate in pace, Amen.

Abbiamo brindato e attaccato il sushi, col sottofondo di SkyTG24.

Già comincivamo a parlare d’altro, quando al balcone si è affacciato SuperMarioPope, dicendo: “Fratelli e sorelle … buonasera”.

O beh, almeno è un Papa educato: parla come Speedy Gonzales, quindi confesso che un po’ già mi piace.

“Voi sapete che il dovere del conclave era quello di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali lo siano andati a prendere quasi alla fine del mondo”
Cavolo, questa frase è fraintendibile … io e i miei amici ci siamo guardati con turbamento: chi inizia a parlare di asteroidi, chi opta per l’opzione più ottimistica “vuol dire che viene da lontano”.

“Grazie per l’accoglienza.”
“Vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore”

Dai, è davvero uno educato! Se non fosse credente, potrebbe essere figlio di mia mamma: “Le cose si chiedono per favore!”
Poi chiede a tutti di pregare per lui. Io faccio finta di nulla, ma mentalmente prego un pochino: io non ci credo, ma il Papa sì e fare un favore a volte non costa davvero nulla.
E alla fine concede l’indulgenza plenaria, persino a chi lo segue sui social. Comprendo subito che, solo per il fatto di usare Twitter, sono stata perdonata da Dio. Cazzo, figata! Cazzo … si può dire cazzo dopo un’indulgenza? Mi sa che non sono proprio tagliata per il Paradiso …

Ma veniamo al dunque.
So che potrebbe apparire pretenzioso il fatto che una che manco cammina dia consigli a Sua Santità, ma per Dio, finché il clero si arrogherà il diritto di spiegarci come fare tutte quelle cose che, tecnicamente, loro non possono fare, io mi sentirò autorizzata a dire al Papa come dovrebbe comportarsi con quella parte del suo gregge che non cammina con le proprie gambe.

Caro Francy,
spero non ti dispiaccia se ti chiamo Francy, comunque fa nulla, perché so che non potresti mai finire nemmeno per errore su un blog ove si scrivono tante parolacce.
Dicevo.

Caro Francy, vienici incontro. Non son qui a perorarti la causa dei gay, perché già faccio fatica a sostenere le mie di battaglie e poi loro sono ovunque e sapranno difendersi da soli. A quel che si dice in giro, in confidenza, cerca di guardati le spalle pure in Vaticano.
Parliamo di ciò che mi sta davvero a cuore, tipo le risposte del cazzo che date a chi soffre o è malato.
 
Non è che a tutti sia concesso il dono della fede: non giudicarci per questo.

Non venirci a dire che siamo così perché in noi sia fatta la volontà del Signore, altrimenti il minimo che ti becchi è un Vaffanculo.
Non dirci che pregherai per noi: abbatti le barriere architettoniche e mentali, che preferiamo.
 
Non dirci che siamo così perché Dio ci ama più degli altri, perché la risposta più ovvia sarebbe: “Pensa se mi odiava!”
 
Non dirci che verremo ripagati di tutto dopo la morte, perché tu puoi pensarla come vuoi, ma per me quando sei morto non succede più nulla, e non è che poi sia una prospettiva necessariamente orribile.
 
Non dirci che se non abbiamo fede dobbiamo pregare per ricevere la fede, perché sei abbastanza colto da capire da solo che è una tautologia: siam mica qui a morderci la coda!

Non dirci che non dobbiamo usare il preservativo, perché se io sfornassi un figlio disabile, sono abbastanza certa che non sarai tu a tenergli la mano dopo l’ennesimo intervento, a litigare perché venga messa una pedana a scuola o a piangere perché tuo figlio ti chiede: “Perché a me?”
Non dirci che non si pasticcia con le staminali o con la fecondazione eterologa, esattamente per gli stessi motivi di cui sopra.

Non dirci che dobbiamo continuare a vivere anche quando vorremmo solo morire. Siamo tipi tosti, attaccati alla vita più di ogni altra cosa e, semmai arrivassimo al punto di volercene disfare, è proprio perché questa vita l’abbiamo amata al punto di non sopportare l’idea di finire con l’odiarla.
Non mi sembra chiedere molto. Sono però aperta al confronto e se hai dei dubbi, non esitare a contattarmi in qualsiasi momento.

Baci (fraternissimi)
Tua Engy
P.S. Fossi in te, scomunicherei il cronista di SkyTG24 che ha detto che hai 76 anni e pertanto si può facilmente prevedere un breve pontificato.

lunedì 11 marzo 2013

Le dieci domande da non porre durante il Conclave


Il breve post di oggi è responsabilità di @davidexfabbri e delle sue "10 cose da non fare durante il conclave. (Speciale cardinali)". Leggetevelo che merita: http://davidexfabbri.wordpress.com/2013/03/09/le-10-cose-da-non-fare-durante-il-conclave-speciale-cardinali/comment-page-1/#comment-145
 
Il suo blog di oggi ha ispirato il seguente decalogo delle dieci cose da non chiedere mai in Conclave, ovvero:
  1. “Ma perché noi ci si vede solo ogni morte di Papa?”
  2. “Tutti qui oggi? Che si festeggia?”
  3. “Ma con quella faccia lì, ti sembra uno papabile?”
  4. Additare un Cardinale mai visto e chiedere ad alta voce: “Chi è quel pirla vestito di rosso?”
  5. Domandare al Cardinal Mahony: “A casa tutto bene? E i bambini come stanno?”
  6. Chiedere al vicino di banco: “Mi fai copiare?”
  7. Chiedere al vicino di banco: “Scola, si scrive con la q?”
  8. "Ostia che fame! Quando è stata l'ultima cena?"
  9. “Dalla stufa esce della roba nera, che vi siete fumati?”
  10. Tirare fuori il cellulare e dire: “Dai, facciamo l’Harlem Shake?”

E dopo le ultime vicende è stata aggiunta la nuova domanda impronunciabile:

11) “Abbiamo eletto quel vegliardo? Non ti sembra uno un po' dimesso?”

mercoledì 6 marzo 2013

Fatti delle domande e datti delle cazzo di risposte

Ci sono giorni in cui nulla sembra andare. Iniziano magari con una minchiata che ti fa innervosire e talvolta finiscono in tarda serata con i grandi quesiti della vita.

Tipo ieri sera, quando sul mio treno sono saliti un disabile con un accompagnatore ed entrambi erano sporchi, trascurati e maleodoranti. Il disabile aveva la candela al naso di tre centimetri, abiti sozzi e sapeva di urina. E tutti lì a far finta di nulla, trattenendo il respiro e girando il capo da un’altra parte. Non erano cavoli loro e sicuramente non erano cavoli miei. O no? Non davano forse fastidio a tutti, quei due sul treno?  Così ho tirato fuori un Kleenex e proposto all’accompagnatore di usarlo. A volte basta pochissimo per aprire un discorso e far capire a una persona che non è invisibile e, sfortunatamente, nemmeno inodore e che un contegno bisogna sempre tenerlo. Non ce la fai da solo? Ecco, tieni, prova a chiamare questo numero.
Pochi minuti, poi loro per la loro strada, io per la mia, a chiedermi che fine avrei potuto fare se nella vita non avessi avuto certi genitori e incontrato certe persone.

La gente si offrirebbe spontaneamente di darmi una mano se fossi ignorante, mal vestita e sporca?

E da quello a chiedersi come sia possibile in una società civile raggiungere un simile livello di degrado il passo è breve, pure per una che non cammina.
Così inizi a pensare che non è giusto, che non è possibile essere votati al far finta di non vedere proprio davanti alle cose peggiori. E poi a rimproverarsi, perché pure io ho fatto finta di non vedere per quasi tutto il viaggio.
Perché facciamo così? Per disprezzo? Per paura di scoprire che "loro" non sono diversi da "noi" e che quindi non siamo immuni come credevamo? Perchè ci disturba tanto intervenire?
E così sono ricaduta nel loop dei grandi quesiti.
Il problema dei grandi quesiti però, è che portano a un mucchio di risposte, tutte del cazzo.
A prescindere dall’interesse accademico, mi piacerebbe non essere più il tipo di persona che perde il sonno su questioni quali l’esistenza di Dio, il senso della vita o in generale tutte quelle domande che iniziano con un “perché”. Salvo le discussioni conviviali in cui scorre del buon vino, normalmente evito il genere di domanda che non porta da nessuna parte, che non sia la depressione.
Io, di solito, sono il tipo che pone una domanda solo se pensa che da qualche parte vi sia una soluzione pratica. E la domanda che mi sto ponendo ultimamente è:
“Perché non sono mai soddisfatta, nonostante tutto quello che ho?”
Quei due sul treno non avevano l’aria di gente che si pone delle domande, nemmeno le più elementari, tipo: “Ma da dove viene questo odore?”
Beh, io mi annuso le ascelle almeno due volte al giorno e se ho ancora dei dubbi, chiedo a chi mi sta vicino se puzzo. Io delle domande me lo pongo e me le porrò finché sarò in grado d’intendere e, soprattutto di volere e voler cambiare le cose.
Detesto le persone che criticano i miei tormenti intellettuali e le mie insoddisfazioni perenni.
LO SO che ho ottenuto tanto dalla vita.
LO SO che sono più fortunata di molti altri.
LO SO che ci sono persone che vorrebbero avere ciò che ho io: casa, amore, lavoro.
Ma quelli che dicono queste cose NON SANNO che se questa è la mia realtà oggi è solo perché ieri non mi sono accontentata.
Un sacco di persone vedono solo i sacrifici necessari per raggiungere qualcosa e ne sono accecati al punto di non capire che fatica, impegno e sacrifici sono la parte bella della sfida. La certezza del risultato non c'è mai, altrimenti che obiettivo sarebbe?
Se non ci provi nemmeno, se non è difficile, se non fai fatica, se non soffri, probabilmente non riuscirai a godertelo davvero.
Il mio problema però è che, quando ho ottenuto l’obiettivo, tutto è come se fosse finito. Sono ormai famosa per aver dato vita a decine di progetti e averli "regalati" nel momento in cui iniziavano a funzionare bene. Che posso farci?
Sono sempre stata una che preferisce il viaggio in sé rispetto alla meta.
Da troppo tempo però mi sto trascinando nella routine, senza nuove sfide, senza nuovi obiettivi. Ogni giorno ricevo ringraziamenti e attestazioni di stima per il lavoro svolto o addirittura per come sono,  come se davvero ogni giorno facessi quello che faccio perché sono buona, anziché perché ho bisogno di farlo.
Che costanza … è fai quattro ore di viaggio tutti i giorni per lavorare?
Poi torni a casa e ti metti pure a cucinare da sola? Un'ora per fare un'insalata ci metti??!

Ma chi te lo fa fare di mettere su un nuovo progetto se tanto non te ne viene nulla in tasca?
Ma come riesci ad ascoltare certe cose e a non pensarci la notte?

E cosa dovrei fare? Starmene a casa perché non ho trovato un lavoro decente vicino? Farmi preparare il cibo da mammà mentre mi annoio davanti alla TV? Limitarmi a mettere timbri e bolle sulle pratiche, anziché incontrare le persone? Buttare anni di studio di psicologia solo perché non posso aprirmi uno studio privato?
Non è la vita che immaginavo, ma almeno non mi annoio.

La fame di obiettivi è ciò che sostiene una vita vera.
Non una di quelle vite in cui ogni giorno è uguale al precedente … poi ti svegli sono passati anni senza che te ne accorgessi.
Si tratta sempre di scegliere se vivere o se lasciarsi vivere.
Probabilmente chi sa accontentarsi è più sereno, ma non fa per me.
A volte mi chiedono se riuscirò mai ad accontentarmi a un certo punto e io rispondo onestamente che non potrei riuscirci più di quanto potrebbe un furetto sotto anfetamina.
Alcuni di noi sono nati per essere sereni e lasciarsi scivolare le cose addosso, altri per essere inquieti e mordere, a volte persino la mano che li nutre. Che sia uno squilibrio neuro-chimico o uno scherzo della natura, non so se vorrei davvero essere diversa.
Se mi vedete serena per più di tre giorni, sottoponetemi a una TAC.
Io certa gente la prenderei per le spalle, inizierei a scuoterla forte e ad urlargli nelle orecchie: “Svegliati cazzo!”
Questa è una settimana ASSOLUTAMENTE NO, eppure meglio così che perdere la consapevolezza del tempo che fugge e delle opportunità non colte.
Il vero problema è che voglio sempre di più.
Sono stanca delle piccole conquiste che non fanno altro che mettere in evidenza quanto ancora manchi, quanto ci sia da fare e quanto sia impossibile scalfire il sistema ad un livello superiore, almeno abbastanza da renderlo vagamente percepibile da una visuale più ampia.
E’ la classica impressione di essere la formica che tenta di strozzare l’elefante. E dato che l'elefante non accenna nemmeno a grattarsi, la formica a volte cade sul dorso col fiatone, si chiede che senso abbia sbattersi tanto.
Ma la verità è che la formica è una testa di cazzo e semplicemente non riesce a rassegnarsi.
E visto che amo solo le domande che possono avere una soluzione, lo chiedo a voi:
Cosa facciamo ora?