domenica 19 aprile 2020

El malà che 'l porta 'l san

Il mio nonno materno era tipo Nostradamus: uno che lanciava messaggi in codice, ammantanti di mistero, che però diventavano chiarissimi non appena la
profezia si avverava. Era uno di poche parole, per di più pronunciate in veneto, cosa che le rendeva ancor più incomprensibili alle mie purissime orecchie sciacquate in Arno. 
Nonno lino mi raccontava sempre e solo la stessa storia, in modo ossessivo. Francamente la cosa mi scocciava parecchio già da piccola, quando gli chiedevo di raccontarmi una favola e lui mi propinava sempre e solo questa.

Sempre con le stesse parole, il nonno narrava la vicenda di due compari: il lupo e la volpe. Complice la fame, questi due improbabili soggetti erano divenuti colleghi di caccia. Un bel giorno, i due giungono nei pressi di una latteria e, trovando un pertugio aperto, vi si infilano e iniziano a fare razzia di latte e formaggio. La volpe, furba come in tutte le favole in cui non ci sia di mezzo dell’uva, si accontenta di piluccare un po’ di cibo, notando che altrimenti non riuscirà più a passare dal pertugio. Dopo qualche lappata, scappa, senza avvertire del pericolo il lupo, che va avanti ad ingozzarsi, finché, troppo gonfio e stanco, si addormenta nella latteria. 
Il mattino successivo ovviamente arriva il lattaio, che corca di botte il lupo, sotto gli occhi ghignanti della volpe appostata lì vicino. A un certo punto però, alla volpe viene il dubbio che il lupo, una volta liberatosi, potrebbe averla a male per non essere stato avvisato del pericolo, così la volpe trova un cespuglio di more, ne coglie delle manciate e se le strofina addosso, per simulare ferite e grumi di sangue, così da poter asserire di averle prese pure lei. Quando il lupo finalmente riesce a fuggire, trova una volpe malconcia, che gli racconta di aver sentito avvicinarsi qualcuno e di essere uscita per proteggere il compare, prendendosi un sacco di mazzate in più. Il lupo, colpito da tanto spirito di sacrificio della volpe, si carica in spalla la falsa invalida, per portarla a riposare nella sua caverna. 
Ora, considerate che il lupo era pesto e dolorante e la volpe, sorniona, si faceva scorrazzare in giro, pur non avendo un tubo. Non contenta, dal dorso del lupo lo sfotteva pure sottovoce: “El malà che 'l porta 'l san” (trad. it.: il malato che porta il sano). 
Ogni tanto il lupo, che sentiva qualcosa senza distinguere le parole, chiedeva: 
“Cosa gheto dito?” (trad. it.: Cos’hai detto?”). 
E La volpe rispondeva: “Gò dito che al me ga dà un fraco de bote” (trad. it.: Ho detto che quello mi ha picchiato tantissimo).
“El malà che 'l porta 'l san”
“Ciò ma cosa gheto dito?”
“Ma chi gà dito gnente…”
“El malà che 'l porta 'l san”
“El malà che 'l porta 'l san”…
Quando divenni troppo grande per le storie, rimase sempre comunque il tormentone, che nonno mi rifilava almeno una volta al giorno, senza alcuna ragione data dal contesto: "El malà che 'l porta 'l san!"

Iniziai a intuire che nonno fosse meno svoltolato di quanto pensassi il giorno in cui mio marito bevve due birre Slalom al bar della spiaggia... Ecco, si potrebbe pure immaginare che se una birra si chiama “Slalom” non è mica perché dopo essertela scolata cammini dritto... Ma niente! Così mi ritrovai a dovermi caricare il consorte sbronzo sulla carrozzina elettrica, cercando di riaccompagnarlo tra mille peripezie, sino all’hotel dove alloggiavamo. 
Ed ecco che, senza nemmeno accorgermene, dalle nebbie dei miei ricordi infantili affiorò alle mie labbra l’antica litania: “El malà che 'l porta 'l san”

Cacchio: nonno era preveggente! 

Da quel giorno, ogni volta che mio marito mi chiede di fare qualcosa al posto suo, perché lui ha male a questo o quello, io faccio ciò che devo, sussurrando però sottovoce.
“El malà che 'l porta 'l san…”
“Cosa hai detto amore?”
“Niente niente, ho detto che faccio volentieri io la spesa, visto che tu non ti reggi in piedi.”

Pareva comunque tutto lì... sì insomma, una profezia, ma non di quelle che ti cambiano la vita e la visione del mondo.

POI GIUNSE LA PANDEMIA

Io fui fra le prime a iniziare a lavorare da casa e nella mia mente si stamparono a lettere di fuoco le parole pronunciate da chi ancora non sapeva in che tempesta sarebbe finita l'Università: 

"Alcuni colleghi con fragilità sono a casa, ma la parte sana dell'Ateneo continua a venire e lavora senza risparmiarsi!"

Insomma, io che da casa mi spaccavo la testa per reinventare i servizi da remoto, immaginando il peggio, costituivo la parte malata, quella che insomma fa ciò che riesce, ma sempre meno degli eroi sul campo.

E niente... col tempo si è scoperto che chi continuava ad andare, non lo faceva per eroismo, ma perché non aveva mezzi, risorse, conoscenze, competenze o possibilità di lavorare da casa. La parte sana dell'Ateneo non funzionava e ora non si sapeva bene come riciclarla o semplicemente aiutarla a lavorare da casa.

Ho trascorso quasi un mese a spiegare da remoto come si configurano dei PC di fortuna recuperati tra i relitti della seconda guerra mondiale. Ho studiato le guide di ogni singolo smartphone per aiutare i colleghi meno tecnopratici a creare degli hotspot, ho ripetuto decine di volte i passaggi di configurazione della vpn, ho cercato e programmato corsi, per consentire di usare le ore non lavorabili come ore di formazione. 
In tutto ciò il servizio di counseling e metodo di studio non si è fermato nemmeno un giorno, si è solo trasformato e ha mostrato a molti altri come trasformarsi.

La parte malata dell'Ateneo, quella che ha sempre lavorato da remoto e che è sempre stata vista come un "di meno", ha letteralmente portato sulle proprie spalle la parte sana.
E sarò onesta: lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo volentieri, perché finalmente potete riconoscere valore al valore che siamo sempre stati.

E non solo sul lavoro. 
Dove c'è un disabile tecnopratico, ci sono famiglie protette. 
Ci alziamo nel cuore della notte per accaparrarci gli orari di consegna della spesa a casa, ci occupiamo di tutti i pagamenti con l'homebanking, vi colleghiamo in videoconferenza con le persone che amate...

E' difficile anche per noi, ma la vita ci ha insegnato troppo presto due cose:
1) Che la natura è matrigna
2) Che bisogna adattarsi e trovare il modo di fare le cose, anche se non come le fanno gli altri.

Se andrà davvero tutto bene, in buona parte, sarà grazie a noi. E non lo dico io, ma nonno Lino: “El malà che 'l porta 'l san”.




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