sabato 29 settembre 2012

Non se ne può più del disabile educato

Probabilmente, proprio come me, molti disabili sono cresciuti con una madre che ha insegnato loro a chiedere le cose "per favore" e a dire "grazie" dopo aver ottenuto ciò che chiedevano. Tecnicamente è così che si dovrebbe fare e un "perfavore-grazie" non si nega a nessuno. Ma è giunto decisamente il momento di smetterla con quella generazione di disabili che prega, supplica e si profonde in ringraziamenti, per non dire regali, quando gli viene concesso qualcosa che nessun bipede si trova costretto a chiedere. E mi riferisco a una miriade di cose: dal dover salire su un bus, al dover farsi aiutare per superare il gradino di un negozio, dal dover passare dalle cucine per andare in mensa, al frequentare la lezione di filologia dell'università in cui studia. Chi cammina, non deve chiedere nulla e nessuno si sognerebbe mai di dirgli "bisogna vedere se è possibile farla entrare da dietro" o "mi spiace, ma l'aula di filologia è per lei inaccessibile"
E nonostante già riceva una risposta riservata esclusivamente alla sua categoria, la maggior parte dei disabili, quando addirittura non rinuncia alla prima difficoltà, inizia a pregare perché venga fatto il possibile. 

Ora, in molti, troppi casi, il "possibile" è già previsto si possa fare e l'unico ostacolo è rappresentato dal normodotato dal culo pesante che hai di fronte. 

A Milano, per esempio, diversi tram e bus hanno la pedana per disabili, ma convincere l'autista a scendere dal mezzo per aprirtela, è un'impresa che passa talvolta dall'educazione, alla supplica, sino alla rinuncia. Personalmente trovo invece molto più efficace il passaggio dall'educazione, al promemoria sul regolamento, sino all'esposto. Perché, mettiamocelo bene in testa, quel tizio non è pagato solo per guidare un mezzo di trasporto pubblico, ma soprattutto per offrire un servizio, che prevede anche aprire una pedana se uno dei suoi passeggeri è su una sedia a rotelle. 

In un Paese in crisi, in cui tanti cercano un'occupazione, se alzare il deretano dal tuo sedile risulta troppo faticoso, dovresti essere lasciato a casa, sul tuo divano, e sostituito da qualcuno che sia disposto a lavorare per meritarsi uno stipendio.

Per come la vedo io, quando un disabile incontra un ostacolo nel perseguire tutto ciò che gli altri danno per scontato, le suppliche e le preghiere dovrebbe riservarle ad eventuali Entità Immaginarie in cui crede, perché chi ha davanti probabilmente non ne è degno.

E, diciamocela proprio tutta, molti problemi dei disabili sono causati dai disabili stessi. 
Se quasi ogni giorno devo affrontare una discussione, scrivere mail minatorie, coinvolgere i giornali per poter fare ciò che la legge italiana riconosce come diritto di tutti, è principalmente perché la maggior parte dei disabili è troppo educata per "dare disturbo".  

I disabili arrendevoli sono diseducativi. 
Se abituiamo i bipedi alle facili rinunce e ad atteggiamenti dimessi, non impareranno mai, perché non gli conviene cambiare le cose… almeno fino al giorno in cui non si romperanno una vertebra o non saranno così decrepiti da usare un deambulatore.

E poi magari sono proprio questi disabili passivi i primi a soffrire e piangere, perché non possono  nemmeno uscire di casa.
Vorrei dire che mi dispiace per loro, ma la verità è che, se ci sono persone cui arrogo il diritto di piangere, sono solo quelle che non si fermano di fronte al primo "no" di un fancazzista.

Puoi piangere e disperarti solo se ci hai provato davvero.

L'Italia è piena di dipendenti che, invece di agevolare la categoria di persone che sono pagati per aiutare, stanno lì a fare il possibile per fare il meno possibile. E mi riferisco anche a taluni "Servizi per disabili", che ogni tanto decidono unilateralmente di modificare in senso peggiorativo, i già indecenti servizi disponibili, senza rendersi conto che anche la più piccola variazione, può rendere impossibile la vita dei loro utenti. 

E alla base di ogni diritto negato, c'è sempre la visione distorta di un disabile che infondo non ha un cazzo da fare tutto il giorno e, se ha un lavoro, è sempre un lavoro di dubbia utilità, che la società gli ha rimediato per "tenerlo occupato" e "fargli passare il tempo". 

Così, per dire, se anche un burocrate normodotato decide che, da domani, i disabili possono prendere il  bus solo fino alle 17.00, non può essere una cosa grave, no? Mica vorrà fare gli straordinari un handicappato?! Già dovrebbe essere grato che gli abbiano rimediato un lavoretto e che gli garantiscano un servizio di trasporto una tantum. Molti disabili non sono così fortunati. E poi, il giorno in cui c'è sciopero dei mezzi, tipo, sempre per dire, martedì prossimo, che il primo treno del pomeriggio parte alle 18.28, il disabile può sempre aspettare un'ora è mezza in stazione, insieme ai drogati. Ancor meglio, può prendere uno di quei permessi per handicappati, così sta a casa pure pagato dallo Stato. Che avrà mai da fare in ufficio di così fondamentale? 

"Martedì stai a casa a riposare vah, che i disabili sono di salute cagionevole."

Ecco, se persone così esistessero davvero, dovrei veramente perdere del tempo per spiegare loro su quante cose si sbagliano o è meglio limitarsi a sputtanarle?
Devo dirglielo che gli unici problemi di salute che mi affliggono da quindici anni sono il reflusso gastro-esofageo e l'ansia da abbandono in stazione, ovvero i disturbi causati da codeste ipotetiche persone? 
Stranamente, le uniche persone a preoccuparsi delle mie eventuali assenze, sono i miei colleghi e il mio Capo, che spesso si offre gentilmente di aiutarmi a non mancare un solo giorno di lavoro.

Quasi quasi, inizio a sperare che mi obblighino a lavorare di meno.
Col nuovo ipotetico orario da rispettare, avrei un sacco di tempo libero per rompere le palle. Perché il mio più grande rammarico, oggi come oggi, è che non ho mai abbastanza tempo per scrivere, contattare vecchi amici giornalisti e nemmeno, pensate un po', per parlare con i sindacati o  scambiare due chiacchiere con uno dei tanti avvocati che ho aiutato a inserirsi nel mondo del lavoro. Se una come me, improvvisamente, si trovasse un po' di tempo d'avanzo, credo che potrebbe fare un sacco di cose per i disabili, nessuna delle quali prevede l'obbligo dell'educazione.
Tra l'altro, la mia più grande Musa ispiratrice é la Carogna. Quando ho il blocco dello scrittore, vado in giro per i marciapiedi di Milano senza accompagnatore ed entro sera ho già scritto fiumi di parole.

Peccato che, per ora, davvero, il tempo sia un bene di cui non dispongo in quantità sufficiente. Eppure sento un sacco di disabili lamentarsi del fatto che si annoiano. 

Ma come è possibile riuscire ad annoiarsi in una realtà quotidiana in cui, giorno dopo giorno, vieni trattato come cittadino di serie B? 

Non devi nemmeno essere handicappato per diventare un paladino. Certo, un conto è quando hai di meglio da fare che rincoglionirti davanti alle repliche di Desperate Housewives. Ma se davvero ti annoi tanto e hai l'impressione di star fermo ad aspettare di morire, perché non fai come Batman? 
Guarda, mettiamo un bel faro colorato sul tetto dell'AIAS, con il simbolo dei disabili, e ogni volta che qualcuno di noi si vede negare un diritto, tu la pianti di postare gattini su Facebook e inizi a scrivere mail di veemente protesta, fare telefonate, inoltrare esposti e avvisare la stampa, che il sopruso ai deboli in quinta pagina gli risolve almeno tre colonne, forse pure quattro se il disabile é disposto a farsi fotografare. 
Per me puoi mettere su pure un business e raccogliere fondi per la LEGA PER LA DIFESA DELLO SCIANCRATO. Non serve volare per farlo, non serve nemmeno camminare: bastano un PC di vecchia generazione, un telefono e una grande attitudine al rompere i coglioni. 

Il mondo diversamente abile ha bisogno di un supereroe.
HANDIMAN AIUTACI TU!

sabato 15 settembre 2012

Evoluzione: dal disabile al bradipo, evitando il milanese

Le domande fondamentali che governano la vita di uomini e animali, sono cinque: 

Chi?
Cosa?
Dove?
Come?
Quando?

Chi è entrato nella mia tana? 
Cosa mangerò oggi e dove potrei procurarmi del cibo? 
Come faccio a catturare quel cerbiatto e quando è meglio attaccare? 

Ora, non sto certo dicendo che la tigre del Bengala stia lì a rimuginare chissà che prima di uscire di casa la mattina, ma è indubbio che certi quesiti spingono le azioni del consesso  animale, che vengano formulate coscientemente o meno. 
Poi ci sono però anche creature come il mio gatto, che due volte al giorno si vede depositare dalla stessa persona una ciotola di cibo, sempre nello stesso punto, più o meno alla stessa ora, senza che debba fare granché per meritarselo. E infatti non è che il mio felix domesticus sia proprio contraddistinto dall'azione: vi sono giorni in cui io esco di casa all'alba, mentre lei è appallottolata sul divano e, quando rientro la sera, la ritrovo esattamente nella stessa posizione. Insomma, Margot è forse l'unica creatura della casa che si comporta come una che ha tutte le risposte: nemmeno Buddha in persona è più sereno di lei. 
A giudicare invece dall'agitazione e dalle lamentele dei vicini sul continuo abbaiare dei miei cani, sospetto che loro qualche domanda se la pongano ancora.

Gli animali che vivono in natura, senza dei maggiordomi umani che assolvano a tutte le loro necessità, non è che poltriscano in ogni momento però. Persino il bradipo, che in media si muove a 0,24 km/h e che riesce a dormire 19 ore al giorno, quando gli prendono i cinque minuti, scatta. Altri animali sono molto più attivi e io credo che più domande si pongano gli esseri viventi per sopravvivere, più siano costretti a muovere il culo. 

E veniamo dunque agli esseri umani: la razza più frenetica e stressata del globo terreste. E parlo di umanità in generale, non dei milanesi, che in natura credo rappresentino l'estremo opposto nel continuum del bradipo. 

Penso che la razza umana sia così agitata e inquieta perché, oltre alle domande essenziali alla sopravvivenza, se ne pone una di toppo, che la rovina a tutti: PERCHE'?

Avete mai visto un delfino scrutare un essere umano con aria interrogativa quando gli lancia un pesce? No. Si prende il pesce, fa qualche capriola e sicuramente non rimugina sul perché qualcuno sia andato a caccia al posto suo.
Gli esseri umani invece, trascorrono buona parte della propria esistenza chiedendosi perché sono così anziché cosà, perché a quello sì e a me no, perché domani e non oggi... 
Anche una come me, che ben prima dei diciotto anni ha compreso l'inutilità del chiedersi perché non cammina, non è immune da altri perché, che affliggono da sempre il genere umano. E ciò mi rende ancor più stupida, in quanto so benissimo che questo tipo di domanda, non solo non ti porta da nessuna parte, ma ti fotte anche il cervello. 
Eppure talvolta ci ricasco, e nemmeno me ne accorgo. Proprio no: a volte passano giorni, per non dire settimane, prima che mi renda conto di esserci ricascata! E ogni volta riconosco l'errore solo quando sono con le gomme a terra, metaforicamente parlando ovviamente, perché quando ho le gomme a terra a livello non metaforico, significa che sono davvero nella merda!
Me ne accorgo perché, in preda allo sconforto, chiamo qualche amica o, se non c'è nulla di più sveglio nei paraggi, mi rivolgo a mio marito e lo tartasso di quesiti esistenziali. Come se uno che non distingue il freezer dal frigo abbia più risposte di me sul senso della vita.

Tutti coloro che mi amano, sono però addestrati dall'esperienza negli anni a riconoscere un "perché?", anche quando si presenta sotto le mentite spoglie di altre domande che non portano da nessuna parte. Col tempo sono diventata sempre più brava a camuffare i perché da altre locuzioni verbali, ma pure chi mi circonda mica è fesso. Del resto sono intellettualmente snob e non potrei mai tollerare di ascoltare persone poco perspicaci, tranne ovviamente quando vengo pagata per farlo.
E così, quando dopo giorni di tempeste umorali, risposte monosillabiche e inattività, me ne esco con una domanda, tutti danno per scontato che sia un perché sotto mentite spoglie:

"A che serve tutto questo?"
"Chi ce lo fa fare?"
"Cosa cambia?
"Tanto alla fine, che differenza fa?"
...

E la risposta giusta a tutto questo è sempre, inevitabilmente, un gran bel calcio in culo.

Non serve chiedersi perché ogni giorno devi alzarti dal letto alle sei del mattino, sapendo che dovrai affrontare una giornata piena di barriere e di persone che non sanno nulla della tua vita, ma pensano che, conciata come sei, dovresti startene a casa, anziché sbraitargli contro per aver parcheggiato "cinque minuti" sul posteggio disabili. 

Non serve chiedersi perché la maggioranza delle persone sia portata a credere che il tuo tempo e la tua vita valgano meno, solo perché li trascorri su una sedia a rotelle. 

Non serve chiedersi perché, dopo tanti anni, tante lotte e tanti sforzi, i risultati conseguiti siano così trascurabili. 

Addirittura, ieri mi hanno detto che non serve nemmeno domandarsi perché, nonostante il tuo impegno, le capacità, lo studio e i risultati, la tua carriera appaia destinata a fossilizzarsi.

I perché ti portano alla ricerca di inesistenti motivi superiori, per non dire di Esseri Superiori, che dovrebbero conferire un senso a tutto ciò che ci circonda e che è sbagliato. 

Ma vogliamo davvero credere in Qualcosa o Qualcuno, onnipotente, che vede tutto questo e non fa nulla? 

Guardiamoci intorno: preferiamo davvero credere in questo Dio o è meglio sperare che non esista?

Conosco poche persone che bestemmiano e quasi tutte si dicono credenti. Forse perché gli esseri umani non sono proprio portati per accettare semplicemente le cose così come stanno e alla fine se la possono solo prendere con chi ritengono essere il Responsabile Ultimo.
Nonostante tutto ciò che mi capita, non ho mai bestemmiato in vita mia e mai lo farò. Se Dio esiste, ci tengo a mostrare la mia superiorità. A volte però, lo confesso, vorrei pregare. Vorrei pregare che le cose più difficili da sopportare finiscano, che qualcosa s'aggiusti, la rabbia si acquieti e la paura scompaia... 
Ma non prego. Non prego perché sono una persona orgogliosa, che non può appellarsi a esseri inesistenti o tanto meno ad esseri che esistono e non intervengono. Non Gliela darò mai vinta. 

Vincere contro Dio però non dà soddisfazione: si ha sempre l’impressione che l’avversario esista solo nella tua fantasia.

Forse, infondo, se non riesco a smetterla di tormentarmi ciclicamente coi perché, dovrei cominciare a bestemmiare, senza passare dalla preghiera.

La fregatura dei perché, è che non solo non hanno risposta, ma ti portano invariabilmente verso l'unica conclusione possibile: che tutto è inutile e che pertanto puoi solo mollare.

E ogni tanto ci penso, a mollare. 
Anzi, forse è davvero l'unico modo per togliersi tutti questi perché dalla testa, definitivamente. 

Il problema è che poi mi annoio a far niente e ricomincio tutto daccapo. 

Non riesco nemmeno pensare di suicidarmi: come lo passo poi il tempo, tutto il giorno sotto terra? Ci manca pure un'eternità in cui posso solo stare lì, a domandarmi perché. 
Io l'Inferno me lo immagino così.

Trovo comunque sia estremamente ironico che, con tutti i motivi che la gente comune ritiene dovrei avere per essere infelice, l'unico che non mi fa dormire sempre bene la notte, siano le incazzature da lavoro dipendente. 

E io che pensavo di essere speciale... 

Invece eccomi qui, con i miei muscoli bemolli, i piedi equini, le mani scimmiesche e la colonna vertebrale che sembra il circuito di Imola, a usare il reggiseno imbottito, per nascondere il fatto che ho una tetta della quarta e una della quinta. 

Eccomi qui, che nemmeno mi reggo in piedi, ad andare in paranoia per i chili superflui.

Eccomi qui, una che dal mondo avrebbe dovuto dipartire anni fa, a lamentarmi del fatto che i miei genitori, i miei amici e mio marito non mi capiscono.

Eccomi qui, a frignare sul mio lavoro a tempo indeterminato, un lavoro per cui ho studiato e che ho voluto, solo perché quando hai raggiunto un traguardo, non puoi accontentarti per sempre di ciò che hai.

Vuoi vedere che, gratta gratta, sono come tutti gli altri?

Peccato, speravo di essere più come il bradipo. Basta guardarlo nella foto qui sotto per capire che ha colto il senso della vita... probabilmente, solo perché in fondo non si è mai posto troppe domande in proposito.


venerdì 7 settembre 2012

Su al Nord, ove girano i disabili... cioè molto più su di Milano

Durante le vacanze estive, proprio come taluni volatili, pure i disabili metropolitani migrano verso habitat più favorevoli alla sopravvivenza. Ma mentre uccelli e bipedi si dirigono preferibilmente a sud, verso climi miti e temperati, il disabile sinantropo predilige località a bassa intensità di barriere architettoniche, fregandosene sostanzialmente del meteo. Non si capisce poi bene perché, ma più in un posto fa freddo, più aumenta il tasso di civiltà di un popolo: forse i climi rigidi favoriscono la vicinanza tra le persone, con o senza rotelle.
Ad ogni modo, le mie mete preferite si collocano prevalentemente a Nord: dal Regno Unito in su. Avendone le possibilità, sarei disposta a lasciare amici, famiglia, animali domestici e marito, per rifarmi una vita in Austria o in Germania. Andrebbe bene pure la Svezia, ma in quel caso mi porterei dietro i cani, per attaccarli alla slitta e riscaldarmi d’inverno.  Pare non vi siano al mondo luoghi più accessibili di quelli al gelo per buona parte dell'anno, possibilmente devastati da una guerra recente, che abbia creato un sacco di disabili incazzati e l'opportunità di ricostruire tutto alla loro portata.
Ad essere assolutamente sicura che è accessibile, mi trasferirei persino al Polo.
Quest’anno il consorte ha tentato di convincermi a trascorrere le vacanze alle Canarie. Incline al sacrificio per amore, mi sono recata in agenzia, ove ho scartabellato con l’operatrice turistica per ore, alla ricerca di un villaggio veramente accessibile. Dopo un tempo infinito, sono tornata a casa con il contratto firmato e l’acconto versato… per Stoccolma.
Nonostante le competenze geografiche di mio marito non siano eccezionali, leggendo la brochure del viaggio, ha immediatamente intuito che la località designata era lievemente più a nord di quanto concordato. Gli ho spiegato che, dopo numerose telefonate, l’alternativa Spagnola era una spiaggia accessibile, dall’accattivante nome “Los Cristianos”, le cui principali, accattivanti attrattive descritte nel depliant erano: l’assistenza della Croce Rossa e il trovarsi a un chilometro dall’ospedale di Las Américas. Poiché non sono il tipo di persona che parte per le vacanze chiedendosi quanto disti l’ospedale più vicino, né il tipo di donna che brama trovarsi su una spiaggia dorata, con assembramenti di sedie a rotelle, come al solito ho deciso unilateralmente per un cambio di programma. Intendiamoci, non ho nulla contro Los Cristianos, ma considerando le mie convinzioni religiose e il mio abbigliamento da mare, temevo che i compagni di lettino si facessero il segno della croce ogni volta che scendevo in spiaggia. Tra l’altro, avete idea del male che la salsedine e la sabbia fanno a una carrozzina? L’idea di allontanarmi dall’Italia e sentir comunque suonare tutto il giorno “Il pulcino pio” dalla mia sedia a rotelle è stato l’elemento finale, che mi ha spinto verso altri, glaciali lidi. Tra l’altro, la brochure della spiaggia recitava: “È attrezzata con: docce, bagni e servizio di noleggio di sdraie e ombrelloni”. Anche se il vocabolario ammette la parola “sdraia”, sono troppo linguisticamente chic per andare in posti ortograficamente mal descritti. Ci crediate o no, ho scartato più di un hotel sulla base degli errori di scrittura in risposta alle mie mail. Che ne può sapere di accessibilità un albergatore che scrive: “Ci spiace dirle che, purtroppo, la nostra struttura è priva di barriere architettoniche per handicappati”, o che asserisce che l’accesso alla piscina è garantito dalla “scivola per disabili”?
Il bello di mio marito è che si adatta rapidamente e senza protestare: così ha tolto i costumi da bagno e la maschera da sub dalla valigia, sostituendoli con piumino ed ombrello. Divertenti sono stati i suoi commenti leggendo la guida di Stoccolma, grazie a cui ha iniziato farsi un’idea del clima locale, leggendo che lo 0.15% della popolazione è costituita da lapponi, mentre il resto è diviso tra svedesi, finlandesi e renne. Lo ha però convinto definitivamente al viaggio l’apprendere che gli svedesi si fanno spesso la “fika-paus”: non mi soffermerò a descrivere con che delusione abbia poi ingurgitato in loco caffè svedese più dolcetto.
Visitare altre città ci permette di crescere socialmente e culturalmente, anche se il consorte ha tentato di svicolare la serata al Kugliga Operan, sostenendo che non ci avremmo capito nulla. Quando gli ho fatto notare che era un balletto, mi ha risposto: “Sì, ma balleranno in svedese!”
I cinque giorni a Stoccolma hanno rappresentato una gradevole fuga dall’Italia inaccessibile e anche un po’ un test d’intelligenza. Sì, perché gli accessi per disabili ci sono, ma evidentemente i disabili autoctoni sono molto più intelligenti di me. Prendere un ascensore, far funzionare una porta automatica o usare un armadietto ha richiesto molto più impegno del superare il test d’accesso all’università. Credo che lì i disabili siano bene accetti, ma solo quelli intelligenti. Inutile dire che, senza di me, il consorte rimaneva regolarmente intrappolato ovunque: del resto l’ho sposato solo per il suo corpo perfettamente funzionante.
Stoccolma è la terra dei musei: il genere di posto dove edificano un museo attorno a qualsiasi sasso che abbia più di cent’anni. E non è mica facile capire dalle loro guide cosa sia interessante e cosa meno. E così abbiamo esplorato tutto, spaziando da maestosi vascelli recuperati dal fondale marino, ai tappeti, sedie e mobili d’altri tempi, in cui si potevano già scorgere i prodromi di Ikea. E, a proposito di Ikea, com’è possibile che nella terra che ha dato i natali agli armadi ELGÅ, PAX ed EMNES, la camera dell’hotel non contemplasse un guardaroba? Misteri immobiliari.
Il famigerato "Toast Skagen"


Il cibo devo dire che era notevole, per quantità e qualità. Nonostante presentasse talune sfide che ho orgogliosamente affrontato, come salmone e caviale rosso a colazione o il toast Skagen, con cui credo di aver assunto un quantitativo di maionese e gamberetti superiore al fabbisogno annuo di un’intera famiglia lappone. Confesso di essermi però arresa all’aringa marinata accompagnata dal caffè mattutino e credo che ciò mi costerà la cittadinanza svedese.

Ciò che però è più sorprendente di Stoccolma, sono i mezzi di trasporto: appena salita sull’Arlanda Express, ho capito di essere all’estero, un po’ per la puntualità e il decoro del treno, un po’ per il wi-fi gratuito a bordo. Per di più, non mi hanno fatto neppure pagare, poiché la distanza tra treno e banchina - notevolmente inferiore a quella cui siamo abituati in Italia – lo rende “scomodo” da prendere senza accompagnatore. Inutile dire che, se possono ulteriormente scusarsi del disagio facendoti aiutare da un bel pezzo di Thor, non devi esitare a chiedere. Mio marito ha sfortunatamente declinato l’aiuto senza nemmeno capire l’inglese: gli è bastato vedere i miei occhioni luccicanti posati sul nordico helper.
Le vacanze per me sono questo: andare in giro, usando i mezzi di trasporto che uso abitualmente anche in Italia, ma senza guasti, autisti di pullman/tram che si fingerebbero ciechi pur di non scendere ad aprire una pedana e, soprattutto, senza fare il muso duro, per non dire litigare o denunciare qualcuno al fine di far valere il tuo diritto di andare al lavoro. Per dì più, durante le ferie, tali mezzi non mi portano nemmeno al lavoro, ma al cazzeggio: se non è il paradiso questo, cosa?
Sfortunatamente, mio marito mi porta in certi paesi civili solo con la carrozzina a mano: con quella a motore ho il vizio di sparire per ore, salendo senza preavviso né meta su qualsiasi mezzo accessibile incontri. E lì se ne incontrano parecchi.
Attraversare la strada poi è un'esperienza di vita, nel senso che, contrariamente a Milano, quando attraversi a Stoccolma sei sicuro di continuare a vivere. Gli svedesi valicano le strade con qualsiasi colore di semaforo, senza guardare, certi che gli automobilisti si fermeranno anziché iniziare il tiro al piattello. Inutile dire che, se uno svedese attraversasse come suo solito una strada milanese, sarebbe spacciato.
E i bagni poi? Tutti lindi e accessibili… i bagni del nord per un disabile sono meglio dell’acqua Roccetta quanto a stimolare la diuresi! Solo una volta abbiamo trovato il bagno per disabili occupato. Stavo giusto commentando col marito il fatto che anche in Svezia doveva esservi la discutibile prassi bipede di pisciare nei cessi diversamente abili, quando dall’interno sentiamo: “Sì, un attimino!”.
A volte, una sola frase basta a farti capire che dall’altro lato della porta c’è un italico esemplare che accorpa in sé le due categorie di persona che disprezzi di più in assoluto: quelli che occupano abusivamente il bagno disabili e quelli che dicono “un attimino”.
E fu così che mi spinsi fino in Svezia, per fare il solito cazziatone a un ragazzotto italiano.