venerdì 29 novembre 2013

Adotta una barriera architettonica e abbattila!

“Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio” – credo che questo sia uno dei versi di De André che preferisco e che canto nella mia testa ogni volta che qualcuno sente il bisogno di dirmi cosa sarebbe meglio facessi o non facessi. L’ultimo dei buoni consigli che mi sono guardata bene dal seguire è stato quello di cancellare il tour in Sardegna dopo l’alluvione.
Se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato, è che ogni volta che rinunci per timore, ciò che rischi davvero è di perdere una bella occasione, in questo caso, addirittura la più bella.
Insomma, ormai sono una carampana di mezza età e spesso nell’ultimo periodo mi aveva sfiorato l’idea che le esperienze più interessanti della vita fossero già state vissute. Stavo provando seriamente a convincermi che ormai avevo ottenuto tutto ciò che volevo e che contava per me: viaggiare, svolgere un lavoro che mi piace e mi dà qualche soddisfazione, avere al mio fianco un compagno che mi tratta come una sorta di divinità da compiacere… invero una divinità non sempre benigna.
Nemmeno un bipede potrebbe volere di più dalla vita.
Eppure... no. Non sono mai riuscita ad accontentarmi di quello che ho. Non che non lo apprezzi: semplicemente non so fermarmi. Perché quando la vita ti ha dato tanto, anche se sei una stronza di prima categoria come me, a un certo punto senti il bisogno di rendere qualcosa, fossero anche cazzotti.
Questo tour in Sardegna mi ha regalato molto più di quello che mi aspettavo. Ogni tappa è stata unica e toccante per diversi motivi. Da sei presentazioni in cinque giorni ci si aspetterebbe di confondere gli eventi, eppure no: ogni incontro, ogni volto è rimasto limpido e distinto e così sarà finché Alzheimer non subentri.
La prima serata a Sassari con Lalla Careddu, la sua gobba invisibile che porta comunque fortuna e i corazzati delle UILDM. Una partenza in quarta e senza freni, perché diciamocelo, i disabili le battute le capiscono prima dei bipedi.
 
Dalla Libreria Cyrano di Alghero con Speranza Serra ho provato l’ebbrezza del connubio libri e vino… e se ho usato il termine “ebbrezza” non è assolutamente un caso, che mica ricordo cosa ho detto, ma è andata bene meda!
E poi la Libreria Koinè a Porto Torres, dove come spalla ho avuto il libraio DOC Andrea Deiana: spiritoso, colto, intelligente e brizzolato… fortuna che era già impegnato sentimentalmente.
A Cagliari ho sentito pagine del mio libro declamate dal  grande attore di teatro Maurizio Anichini ed è stato così coinvolgente che per un attimo mi sono chiesta se ero stata davvero io a scrivere una simile figata.
E poi l’esperienza al carcere di Nuchis.
Non ero sicura di volerla fare.
E man mano che mi spingevano attraverso porte blindate e sbarre che si chiudevano dietro di me, mi sono sentita sempre meno sicura.
Davanti all’ultimo cancello, ho messo istintivamente le mani sulle ruote, per frenare quell’avanzata verso il peggior incubo di una ex-claustrofobica.
Ma sono entrata... mi hanno spinto più che altro eh! 
Sono entrata in quella stanza chiusa, con 30 carcerati, senza maniglie alle porte e alle finestre. E la prima cosa che mi ha colpito è stato il Rispetto. Sono entrata e hanno smesso di chiacchierare, senza nemmeno bisogno che attaccassi il discorso. Mi guardavano tutti, cercando di sedersi più vicini possibile, non come nelle solite aule universitarie dove le prime file sembrano il deserto dei Tartari. E allora mi sono detta: “O la va o la spacca: io la battuta la faccio!”
Così ho iniziato dicendo che per la prima volta mi sentivo sicura nel fare una presentazione, perché il mio più gran timore è che la gente si annoi e lasci la sala, mentre da lì ero certa che non sarebbe scappato nessuno.
Ed è andata. Il carcerato capisce le battute anche prima del disabile: è stato subito un amore galeotto.
Non ho mai visto un’aula così attenta e partecipe. Nessuno mi ha mai fatto domande così profonde e acute. Nessuno si è mai adattato così rapidamente al mio registro diversamente ironico. Abbiamo riso, abbiamo parlato di legalità, di assunzione di responsabilità… perché lì dentro nessuno dice di esserci finito per caso, mentre qua fuori tutto quel che accade è sempre colpa di qualcun altro. Abbiamo parlato di Dio e hanno addirittura cercato di convertirmi: 30 carcerati convinti della mia segreta fede interiore, mi hanno portato più vicina a mettere in discussione l’agnosticismo di qualsiasi prete.
E le battute che hanno proposto loro stessi sulla disabilità e sul carcere, mi hanno fatta sentire una principiante. Chi si vantava di aver risolto il problema delle barriere architettoniche facendosi rinchiudere a vita in un carcere accessibile, chi mi ha rassicurato sul fatto che la sedia a rotelle non era un problema perché lì dentro avevano visto di peggio e chi osservava che discutendo io di leggi da interpretare anziché applicare stavo parlando di corda in casa dell’impiccato.
E in tutto questo, l’unica che è passata dal Lei al tu, sono stata io. Perché quegli avanzi di galera nemmeno per un istante hanno smesso di chiamarmi “Dottoressa” e di darmi del Lei, con la sola eccezione di un uomo che per tutto il tempo ho pensato fosse convinto avessimo scritto il libro in quattro, prima di rendermi conto che mi stava semplicemente dando del Voi.
E alla fine mi hanno tutti voluto stringere la mano, quando non abbracciare e baciare. Mi hanno fatto sentire una di famiglia, anche se non ho ancora ben capito se del tipo con la “f” minuscola o maiuscola. Si sono impegnati a consigliare il mio libro a tutti i loro familiari e hanno chiesto delle copie per il carcere. Una copia a dirla tutta me l’hanno fregata sotto il naso, ma diciamo che il sistema è stato così sottile che se la sono guadagnata.
Poi esco di lì, un cancello dopo l’altro, e scopro che il tizio che citava autori sconosciuti persino a me è dentro per strage. Mi dicono che ho baciato sulle guance un boss della Mala e che il signore che pareva la copia sputata del mio zio preferito deve scontare quattro ergastoli. E quando ho saputo tutto questo, anziché repulsione, ho provato solo il desiderio di conoscerli ancora meglio e di capire come sia possibile che delle persone che farei entrare volentieri nella cerchia delle mie amicizie più intime (e io sono incredibilmente snob a riguardo), abbiano fatto determinate scelte.
E improvvisamente ho realizzato che non posso più essere favorevole alla pena di morte, perché due ore in gattabuia mi hanno fatto vedere la luce.
E so che non potrò più guardare i ragazzi svogliati che incontrerò ad ogni nuovo colloquio senza fare un confronto. E mi chiedo se potrò sopportare come prima tanti giovani che parlano di crisi e la usano come giustificazione per tutto, senza vedere le opportunità che in realtà hanno per il solo fatto di essere liberi, sani e in un’Università che non sarà perfetta, ma che può dare tanto di ciò che ad altri è negato.
E infine, l'ultimo giorno del tuor, il Centro Logopedico-neurolinguistico di Olbia, che ci ha voluti a tutti i costi, nonostante i recenti danni subiti dall’alluvione. Di questa tappa c’è chi ha detto che avrebbe dovuto essere cancellata per ragioni di “buon senso”. Ma i primi a non aver avuto il “buon senso” di mettersi in un angolo a leccarsi le ferite, i primi che hanno preso subito in mano una pala per gettar via il fango che il destino gli ha buttato addosso, sono stati proprio gli olbiesi. Ci hanno fatto trovare una struttura linda, accogliente e addirittura una nuova pedana per superare gli scalini d’ingresso. Ora, a chi mi verrà a dire che non si può abbattere uno scalino, non potrò che rinfacciare che degli alluvionati che fino al giorno prima avevano la melma sino alle chiappe lo hanno fatto. Basta scuse: rendetevi conto che davanti a simili esempi le scuse mi fanno vomitare!
Pensavo di scendere in Sardegna per vendere delle copie, invece ho ricevuto talmente tanto da accumulare un debito karmico enorme, che devo assolutamente pagare.
I miei genitori mi hanno insegnato ad usare la lingua e mi hanno trasmesso quel sano fatalismo che permette di non farsi spaventare, perché se deve succedere qualcosa può succedere ovunque ed è meglio che succeda mentre ti diverti anziché quando ti piangi addosso. Però è evidente che non tutti hanno avuto la fortuna di essere mandati avanti - qualche volta a calci in culo - dalla mamma. E’ evidente nel momento in cui ad un tour di presentazione di un libro sulla disabilità sono presenti moltissimi normodotati e pochissimi disabili, nonostante le strutture di accoglienza fossero ovviamente accessibili. Non faccio certo una colpa a nessuno perché la Sardegna, per un disabile, è la classica bella e impossibile. Tuttavia la Sardegna è uno degli Stati con più disabili, sebbene io ne abbia incontrati pochi. Mi sono chiesta dove fossero e ho elaborato due ipotesi: o sapevano che sarei arrivata io e si sono rifugiati in cima alle scale, per essere sicuri di non essere raggiunti, oppure sono rimasti a casa propria, magari a pubblicare post incazzosi su Facebook per l’inaccessibilità delle strutture.
Ed è qui che sbagliamo: finché restiamo nelle nostre casette a inveire contro gli scalini, non costituiamo un problema per nessuno, se non per la nostra felicità. Ma se vogliamo davvero ottenere qualcosa, dobbiamo uscire di casa e - come dice il mio libraio preferito Massimo Dessena – passeggiare sui coglioni della gente.
Ho percorso la Sardegna con Lucia - l’unico Assessore alle politiche sociali al mondo che porta davvero il peso dell’handicap (un peso che tra pranzi e cene sarde è lievitato di diverse libbre) – e con Luana e Silvia, le mie editrici svitate che, nonostante i nomi, giurano e spergiurano di non aver mai girato un film con Rocco Siffredi.
Quattro donne più temibili dei Cavalieri dell’Apocalisse, che dove passavano abbattevano scalini e rimuovevano auto parcheggiate abusivamente sui posteggi per disabili. Se dove passava Attila non cresceva più l’erba, dove siamo arrivate noi spuntavano pedane dimenticate in vecchi e angusti ripostigli.
Probabilmente Luana e Silvia non avrebbero mai immaginato che pubblicare il libro di una disabile comportasse anche imparare ad essere dalle brave badanti e non riuscire mai più ad entrare in un locale senza chiedersi “Ma da qui Engy ci passerebbe?”.
lo so che ho creato altri due mostri e ne sono fiera.
L’unico modo per sensibilizzare i bipedi verso le barriere architettoniche è camminare (metaforicamente) in mezzo a loro.
Perché i normodotati non sono cattivi, sono solo distratti.
Purtroppo i disabili sono troppo pochi per cambiare il mondo e di questi pochi, ancor meno hanno la forza per lottare. Se vogliamo ottenere qualcosa, anche i bipedi devono fare il lavoro sporco. Ma come?
Durante il tuor sardo di presentazione del libro “Mi girano le ruote” abbiamo dato vita a una campagna:
ADOTTA UNA BARRIERA ARCHITETTONICA E ABBATTILA.
L’unica cosa che chiediamo ad ogni bipede e quadruruote d’Italia è di scegliersi un obiettivo mirato, uno solo. Può essere uno scalino, un marciapiede senza scivolo, un bagno per disabili usato come ripostiglio… non serve partire dalle grandi imprese edilizie, basta cominciare dal panettiere, dall’edicola, dalla libreria, dalla pizzeria… volendo addirittura da casa propria. Come? Chiedendo tutti giorni, tutti quanti, la stessa cosa, per esempio: “perché non mette una pedanina in legno per le sedie a rotelle?” Non hanno scuse: non gli si chiede un’opera in muratura che potrebbe scontrarsi con i regolamenti dei centri storici, basta uno scivolo rimuovibile. Non sono così intelligenti e lungimiranti da capire che la popolazione invecchia e che si stanno via via giocando una fetta di clienti sempre più ampia? Costruiamogliela noi a sti morti di fame la pedana!
Oppure prenotate in comitiva in un ristorante inaccessibile, portate con voi un disabile e, quando vi diranno che non c’è la pedana, ma possono aiutarvi loro ad entrare, ditegli che preferite migrare in stormo verso un altro ristorante, perché il vostro amico sciancrato ha diritto quanto voi di entrare con dignità a mangiarsi una pizza. E ripetete la scena ogni mese, finché l’oste non imparerà a farsi meglio conti.
E poi mandateci le foto del prima e dopo. Spedite a abbattiunabarriera@gmail.com il reportage della barriera che avete adottato e ucciso: le pubblicheremo sulla Bacheca dei Miracoli! Non solo: nel caso di esercizi commerciali, ci impegneremo ed organizzare gruppi di shopping e serate goderecce, per premiare e per premiarci dopo ogni successo.
 

martedì 12 novembre 2013

Ho scritto un libro, ma giuro che non l'ho fatto apposta

E' vero: l'ho fatto. Ma fino a pochi giorni fa, non lo avevo mica capito che fosse una cosa tanto grave.
Gradualmente però me ne sto rendendo conto, soprattutto dalle reazioni delle persone.
Non che sia il tipo che va in giro a dire che ha scritto un libro ma, contrariamente ai disabili, le voci corrono.
No, okay... ho detto una bugia: lo ammetto… sono proprio una di quelle che ogni due minuti sbandiera su Twitter e Facebook le novità connesse all’uscita del libro, ma non è che nella mia vita ci siano poi molte altre cose che valga la pena raccontare. Posterei le foto di quello che cucino, se non me ne vergognassi tanto.
 
Ma torniamo al libro. La casa editrice un paio di cose te le spiega, ma mica tutte, probabilmente perché teme che ti venga un attacco di panico anzi tempo.
Tra le cose che ad esempio non ti dice è che persone che vedi da sempre, improvvisamente, quando scoprono che hai scritto un libro, ti considerano. Alcuni fin da subito, altri solo dopo averti chiesto “Ma hai pagato tu la stampa?”. Certo che no! Va bene  essere una disabile self-confident, ma non investirei mai economicamente su una persona come me, che non sa nemmeno vestirsi da sola. Per fortuna Voltalacarta editrici ha scoperto che non sono in grado nemmeno allacciarmi le scarpe solo di recente: ormai i soldi li ha spesi.
 
Quando finalmente arriva il tuo libro in libreria, succede più o meno così.

La notizia all’inizio arriva ai parenti e da quelli i complimenti te li aspetti, così come ti aspetti che alla tue spalle si scambino in famiglia verità scomode sul tuo libro. Però di alcuni di loro non crederesti mai che lo abbiano letto davvero tutto. Sì, insomma, pensi che facciano un po’ come te, quando proprio sei costretta a dare un parere rassicurante sulla tesi di tuo cugino: leggi le prime due pagine, quelle centrali, le conclusioni e poi dici che l’hai divorata in poche ore. Mica è una bugia infondo. Invece i parenti ti citano: pagina, numero, capoverso e aperte virgolette. Nemmeno tu ne saresti capace e il libro te lo sei scritta.
Dopo qualche giorno, capita che persino il collega dell’ufficio accanto, che nemmeno ti salutava alla macchinetta del caffè, ti dice: “Ho letto il tuo libro.”
Così: punto.
Più che l’inizio di un discorso sembra una costatazione e nemmeno di quelle amichevoli.
E tu sei lì stupita, innanzi tutto perché non sapevi nemmeno che il collega sapesse leggere e poi perché, tra tutti i libri che poteva comprare, ha comprato il tuo, che non è nemmeno così facile trovare in giro.
Poi il collega ti sorride - uno spettacolo davvero raccapricciante, credetemi – e dice: “Mi hai fatto morire dal ridere!”.
Che dire, siamo passati dal non salutarci al distributore automatico al “tu”, senza nemmeno passare per il “Buongiorno”.
Poi parli con alcuni che arrivano addirittura a confessare che il tuo è l’unico libro che abbiano mai letto per intero, dai tempi della scuola. Loro vogliono essere carini e invece ti senti in colpa! Avrebbero potuto godersi capolavori come “Il nome della rosa” o “Il Signore degli anelli”, ma sono finiti col leggere “Mi girano le ruote” e questo solo perché hanno avuto la sfiga di conoscere di persona te anziché Eco o Tolkien. Riesci a non fare harakiri solo pensando che poteva pure andare peggio: potevano essere amici di Fabio Volo.
E ti chiedono l'autografo, magari con dedica. Così è successo che hai firmato la tua prima copia del libro: hai pensato a delle belle parole da scrivere, hai sfoderato la miglior calligrafia da istituto Canossiano e poi, per abitudine, hai siglato il tutto con le iniziali del tuo Capo.
E non è che poi sia andata meglio. Per gioco scrivi pagine e pagine di parole e poi ti blocchi davanti a una dedica. Alcuni amici fumettisti cercano di aiutarti e ti consigliano di non concentrarti troppo e di scrivere le dediche d'istinto. "Affidati all'inconscio!" Sì, peccato che dopo un paio di dediche atroci ti è subito chiaro che inconsciamente ti piace offendere il prossimo.
Ma questo non è tutto. Passa una settimana dalla distribuzione del libro, apri la casella di posta dell’ufficio e scopri una mail del tuo Capo, contrassegnata come urgente e che nell’oggetto riporta: “Ho letto il tuo libro”.
Ecco: è finita.
L’ha scoperto e ora è incazzata a morte per la battutina in cui scrivi che il tuo Capo non è tipo da discriminare i disabili, perché preferisce sfruttarli come un negriero.
Clicchi tremante sulla mail che si dipana davanti ai tuoi occhi annebbiati dalla disperazione e… trovi un sacco di complimenti!
Anni e anni trascorsi a cercare di brillare agli occhi di qualcuno che - non lo ammetteresti mai - infondo stimi, per scoprire che per avere la sua approvazione dovevi scrivere un libro… Cioè fare un altro lavoro a ben vedere.
Però sei commossa, davvero, questa proprio non te l’aspettavi.
La prima intervista invece te l’aspettavi eccome! Ti avevano avvisata per tempo e ti senti pronta! Via con la prima domanda: “Perché hai scritto un libro?”
Oh cavolo.
A questa mica sai rispondere. Intuisci vagamente che la verità non sarebbe in questo caso opportuna, perché nessuno scrittore promettente direbbe mai: “Perché ero sbronza e ho perso una scommessa.” Però non vuoi nemmeno mentire ai potenziali lettori. Così ci giri in giro e dici che infondo non lo sai perché, che è successo e basta e che in qualche modo sono stati soprattutto i tuoi amici a spingerti.
 
Il resto dell’intervista scorre meglio. Le domande sono intelligenti e dato che sei più che altro abituata a quesiti idioti del tipo “Com’è successo che sei finita in sedia a rotelle?”, questa nuova realtà, per una che nemmeno cammina, è quel che i bipedi definirebbero “un passo da gigante”.
Piano piano scopri intorno a te un mondo di persone sveglie, che esigono risposte intelligenti.
Per fortuna ci sono ancora quelli che ti dicono: “Che brava, hai scritto un libro! Così ti tieni un po’ impegnata eh?”
E quelli che osservano: "Dio ti ha fatto il dono della scrittura!"
E figurati se una cosa giusta che facevo non era merito di un altro.
Non ci fossero costoro, avrei la certezza di essere morta e finita inspiegabilmente in Purgatorio, anziché direttamente all’Inferno.
Per fortuna anche a casa resta tutto uguale, a parte qualche battuta tra moglie e marito:
"Amore, ti faccio solo notare che mentre tu ti cambiavi, io sono tornata a casa, ho fatto terapia col respiratore, cyclette per 45 minuti, cucinato, apparecchiato tavola portando piatti e bicchieri uno a uno e, nel tempo libero, ho pure scritto un libro!"
Poi un giorno arriva la free-lance che ti pone la domanda topica:
“Credi che il tuo libro, in qualche modo, possa cambiare il mondo?”
E tu scoppi a ridere, convinta che la giornalista ti stia fottendo.
Adorata ironia: allora non la uso mica solo io!
Però lei è lì, seria, imperscrutabile, apparentemente convinta che un piccolo libro scritto da un’handicappata e pubblicato da una casa editrice sarda possa davvero cambiare i destini dell’umanità.
Eh no, è proprio seria!
Cavolo, io cambiare il Mondo?!! Ma questa qua lo sa che il mondo è popolato soprattutto da normodotati?! Fossero perlopiù disabili, avrei una chance, ma così…
Però l’intervistatrice ti fissa paziente, una risposta la vuole proprio, ma “Prenditi pure del tempo per pensarci”.
Non ti resta che ricomporti, giustificare l’accesso di risa come sporadico effetto collaterale della tua misteriosa patologia - tanto i bipedi si bevono più o meno tutto in fatto di handicap – e dare una risposta plausibile.
E ovviamente rispondi che ti piacerebbe crederci, ma che sai che non è facile. Ti impegni comunque a provarci con tutta te stessa, che tanto pare non ci sia molto di più importante da fare nella vita che ridefinire gli equilibri sociali di questo Paese.
Hai trascorso 38 anni della tua vita cercando di riempire i buchi di tempo dandoti a ricamo, pirografo, pittura e, disgraziatamente, alla scrittura e, dall'oggi al domani, ti rendi conto che le prossime tre settimane della tua vita non contemplano un numero di ore sufficienti per fare tutto ciò che ti propongono di fare. Interviste, presentazioni, articolini, riprese, cene con amici ritrovati dopo anni e persino pranzi con alti rappresentanti del clero. Più che alti, larghi in effetti. E in tutto questo marasma, arriva una telefonata in cui ti chiedono se vuoi partecipate a un programma fichissimo su Radio2.
Ecco, lo sapevi: hai esagerato a tirartela con gli amici e ora per vendicarsi ti fanno lo scherzone!
“Maddai scema! Ilaria, ti ho riconosciuta! Va là che per fregarmi devi impegnarti di più!”
E però è davvero la Radio e a quanto pare la scema sei tu.
Tu in Radio? E’ evidente che questi qui non sono amici della logoterapista, altrimenti non si spiegherebbe perché ne vogliano rovinare la reputazione su territorio nazionale.
LA RADIO?!! No, dico, poi mica Radio Maria, da cui un po’ ti saresti aspettata che coinvolgesse una sciancrata come te, ma una Radio vera, gestita da conduttori veri, mica preti! Un programma poi come CaterpillarAM… cavolo, non hai nemmeno dovuto mentire quando hai detto che li ascolti sempre!
Ovviamente accetti, chiedendo semmai se sono proprio sicuri non ci sia uno scambio di persona e dicendo che, se cambiassero idea pure all’ultimo, tu capiresti.
E poi, come ogni sera, sali sul solito treno che, se tutto va bene, ti porterà a casa. E ti senti sola. E inizi a riflettere. Improvvisamente capisci che tutto è iniziato come uno scherzo, ma che forse ora hai delle responsabilità.
Non te lo saresti mai aspettato da qualche nottata di bagordi trascorsa a ridere e a piangere davanti al monitor del tuo computer, ma è successo: hai davvero partorito un libro e ora devi assumertene la responsabilità.

Devi farlo innanzi tutto per quelle pazze di Luana e Silvia, le tue editrici col nome da pornostar, che hanno creduto in te al punto da investire i loro soldi… e tu lo sai che mica sono figlie di Berlusconi, altrimenti avresti pubblicato con Mondadori. Non potresti mai perdonarti di essere la responsabile del fallimento di due piccole e determinate imprenditrici sarde, sopravvissute tenacemente alla crisi economica.
Devi farlo perché un risultato è già sotto i tuoi occhi: alcune persone hanno letto un libro in più e tu speri che sia vero quello che ti hanno sempre raccontato e cioè che non importa quello che si legge, purché si legga.
Devi farlo perché alcune persone e associazioni è evidente che in questo progetto ci credono. E chi sei tu, per pensare che tutta questa gente molto più in gamba di te si sbagli?
Ma soprattutto, devi farlo perché ti sei dimenticata da tempo la cosa più importante: che saper scrivere è un dono e se il tuo corpo non è in grado nemmeno di sorreggere il suo stesso peso, ma sa battere alla tastiera, forse un perché infondo c’è. Forse ti si sta chiedendo di usare il  tuo dono più grande per fare ciò che da sempre sai fare meglio: rompere le palle.

O forse ti stai solo montando la testa.

Quel che è certo è che se una farfalla che sbatte le ali a Pechino può causare un tornado in Texas, per come so rompere le palle io, c'è da aspettarsi l'Apocalisse.
Sia come sia, per una volta nella vita, voglio a provare a rompere le palle al prossimo non solo per ottenere qualcosa per me, ma anche qualcosa per i miei compagni di ruota. Perché una lingua lunga come la mia è davvero troppo per servire una sola persona.
Per fortuna non sono da sola. Al mio fianco ho solo gente tosta… chiamatela selezione naturale se volete. Ma soprattutto al mio fianco ho realtà vere e concrete, che da molto prima di me e in modo molto più efficace, lottano per abbattere le barriere architettoniche e mentali, come la UILDM di Sassari, che sta organizzando il mio tour sardo e che farò di tutto per non deludere. Perché io un libro l’ho scritto per scherzo, ma la UILDM da sempre si impegna per davvero. E se una donazione la volete proprio fare, non lasciatemi in mano il resto dei 14 euro del libro, che non mi bastano nemmeno per un chupito, ma fate una donazione seria a loro.

       La foto qui sopra risponde alla domanda: "Come ti è venuto in mente di scrivere un libro?"