sabato 4 agosto 2012

Anche i disabili piangono

Non sono il tipo che si commuove, giuro. Non lo sono dalla più tenera età: quando trascorri buona parte dell'infanzia tra medici, ospedali e interventi, la prima cosa che impari è tenere duro e non piangere mai, almeno non in pubblico. Cosa vuoi che sia la morte della mamma di Bambi quando a quattro anni ti aprono entrambe le gambe per giocare a tangram con i tuoi muscoli? 

Non credo di aver mai pianto per un film, con Hachiko, lo confesso, ci sono andata vicina, ma non è accaduto. Non che sia insensibile, ma sono più il tipo che soffre o gioisce internamente. Solo la rabbia la esterno bene, ma credo che sia unicamente perché spesso assolve una funzione adattiva: si ottengono più risultati con l'aggressività controllata che con mille suppliche.
Piangere, soprattutto davanti a testimoni, non è debolezza, ma è perdere il controllo e a me il controllo piace. Non posso dare ordini a buona parte del mio corpo, quindi cerco di specializzarmi su tutto il resto, emozioni incluse.

E poi arriva lui, un amputato qualunque, un tale di nome "Oscar Pistorius". Pur avendo seguito la sua vicenda e aver perorato la sua causa nelle discussioni "Olimpiadi sì/Olimpiadi no", confesso che era per lo più un esercizio intellettuale. Nemmeno ricordavo che oggi avrebbe gareggiato per le semifinali dei giochi olimpici. Sono finita casualmente sul canale, facendo zapping, e mi sono inchiodata a guardare, dopo il primo piano delle sue elegantissime protesi in fibra di carbonio. 

Ed eccolo lì, bello come il sole, pronto a correre in un mondo che così raramente riesce a integrare uno "dei nostri". 

E non è che lì ci sia arrivato senza ostacoli e senza polemiche. 
Vedendolo su quella pista, mi sono chiesta se anche lui, nel bilancio complessivo della propria vita, sia arrivato alla conclusione che infondo è stato molto più facile lavorare sul suo handicap che sulla società in cui vive. Infondo l'handicap è parte di te e lavorare su di te è molto più umanamente possibile del lavorare su tutti i fattori esterni. 

Non facile: umanamente possibile.

E poi eccolo che parte: come uno di tutti gli altri, nonostante sia un Eroe più di quanto lo saranno mai quelli sulla pista insieme a lui. 

Se anche su quella pista ci fossero stati solo atleti italiani oltre a lui, il mio cuore non avrebbe comunque avuto alcun dubbio sulla persona per cui tifare. E l'ho fatto a modo mio: osservando, attenta, in silenzio, insieme a mia madre. Pochi secondi e tutto finisce, o dovrei dire comincia, con un meritatissimo secondo posto, che rende Pistorius il primo atleta bi-amputato della storia a partecipare alle Olimpiadi e a qualificarsi. 

Come se nulla fosse, racconto a mia madre la storia dell'inventore di quelle protesi, Van Phillips, anch'egli amputato, a dimostrazione che, se una cosa vuoi che sia fatta bene, te la devi fare da solo. Ma mentre la racconto, la voce ha qualcosa che non va: incrinature insolite, che ascolto io stessa con sospetto e stupore. Il cuore ha un tuffo e mi ricordo improvvisamente dove l'avevo messo. Ma tutto finisce lì. Salgo a casa mia, pranzo, vedo un po' di TV e decido di mettermi al computer, per festeggiare Pistorius con un'immagine su Facebook. E mentre Yahoo mi ripropone immagini e filmati della sua carriera, realizzo davvero il miracolo che quest'uomo ha compiuto. 

Il miracolo di Pistorius è che ha faticato a tal punto da riuscire ad adattarsi a un mondo che non gli appartiene. E  quando questo mondo ha provato ancora a respingerlo, nonostante i risultati, ha continuato a lottare, con altri mezzi - legali e mediatici - fino alla vittoria.

Guardo quest'uomo sullo schermo e lo guardo con un misto d'orgoglio e d'invidia. E poi piango, anzi, a dirla tutta, sto ancora piangendo a intervalli regolari.
E non lo so nemmeno perché piango, o meglio lo so, ma è un miscuglio così complesso, che solo scrivere può aiutarmi a capire. Piango perché lui ce l'ha fatta e ha dimostrato che è possibile. Piango perché a 26 anni, lui ce l'ha fatta, mentre io a 37 non ho ancora lasciato un segno. Piango perché tutto mi sembra ancora possibile e perché voglio provare la stessa emozione che deve provare lui in questi giorni. Piango perché è giusto e per un milione di altri motivi per cui oggi è giusto piangere.

Prima della gara, lui aveva detto di aver già vinto, per il solo fatto di essere su quella pista. Ed è vero: ha vinto, ma vincerà ancora di più quando si alzeranno altre polemiche e lui continuerà a sostenere una lotta che non è più la sua lotta, ma quella di tutte le persone che ogni giorno cercano di entrare in un mondo che non si spreca in grandi possibilità d'integrazione.

In un'intervista, Pistorius ha voluto rispondere a quella domanda che credo gli sia stata posta troppo spesso nella vita, sicuramente non da disabili: 

Caro Pistorius, non è più così. Tu non stai correndo più solo per te stesso: tu corri per tutti gli amputati e i disabili del mondo. Anche se forse non lo sai e, forse, nemmeno lo vuoi.

In un post di qualche tempo fa (Vantaggiosi svantaggi), scrivevo che avrebbe dovuto rinunciare, perché anche se vincesse, i normodotati non gli riconoscerebbero mai la piena vittoria, sostenendo che le protesi sono un "vantaggio".

Beh, mi sbagliavo. Lui deve continuare a gareggiare e a fare del suo meglio per vincere, perché su quella pista ci siamo tutti "noi". 

E ben vengano il clamore e le polemiche, che sicuramente fanno compiere molti più progressi del pietismo e della carità.

Questo noi chiediamo al mondo normale: che ci fornisca gli strumenti - medici, scientifici, assistenziali -  per mettere piede su quella stramaledetta pista. E che poi lo starter spari il colpo: noi saremo pronti a spingere con più forza, passione e motivazione di chiunque altro.

E solo una cosa vorrei direi ora a Pistorius, se ce lo avessi davanti:

Grazie! Grazie davvero, ma ricorda che la guerra, la nostra guerra, la stiamo ancora combattendo e abbiamo bisogno di vessilli. E tu sei la bandiera più bella che una nazione possa avere.

E ora metticela davvero tutta per portare a casa una fottutissima medaglia, altrimenti ti sego le gambe!






venerdì 3 agosto 2012

Sono disabile e in quanto tale, sono sempre, costantemente incazzata come una bestia

Da qualche giorno mi fisso assiduamente allo specchio, notando l'inquetante delinearsi di una ruga d'espressione tra gli occhi. Ora, sia chiaro, so che sto invecchiando e che i segni del tempo sono inesorabili, ma come diavolo è possibile che una ruga d'espressione si delinei in una donna che, in virtù della propria malattia, ha la mimica facciale di un comodino? Me lo sono chiesto e richiesto, cercando di fare smorfie davanti al mio riflesso speculare e costatando che, per quanto mi sforzi di trasmettere sentimenti col viso, rimarrò sempre e comunque il miglior giocatore di poker sulla piazza. E allora, da dove viene questa ruga?
Ho scimmiottato davanti allo specchio tutta una mattina, senza vederla mai accentuarsi. Poi, improvvisamente, mio marito mi urla dalla stanza attigua: "Engy, ti sei ricordata di inviare quel FAX all'INPS?" Ed eccola lì, la ruga bastarda! Mi vien fuori ogni volta che mi incazzo e, considerando quanto spesso m'incazzo, è normale che stia disegnando un canyon tra i miei occhioni tenebrosi!

Insomma, non diventerò una di quelle MILF con le zampine di gallina e le rughe intorno alla bocca, tipiche di una persona che ha il sorriso sempre sulle labbra. Quando vedo queste solari quarantenni, non posso fare a meno di chiedermi che cavolo avranno mai avuto da ridere tanto nella vita. Ma infondo è tutta invidia, l'invidia di una persona a cui chiedono "Perchè hai quella faccia così scura" anche quando è di buon umore.

Un po' è pure conformazione: se hai muscoli tonici quanto una gelatina di lamponi, già per natura la palpebra cala e gli angoli della bocca si afflosciano. Un po' però c'entra anche il fatto che me le fanno girare spesso.

Sono la Joele Dix degli handicappati:

Sono disabile ed essendo disabile, sono sempre, costantemente incazzata come una bestia.

E la malattia non c'entra. Troppo comodo dire: "E' arrabbiata col mondo perché sta su una sedia a rotelle". Innanzi tutto non sono arrabbiata col mondo intero, ma solo con una fetta, per quanto cospicua, di umanità. Quanto alla mia "sedia a rotelle", non c'è cosa al mondo che ami più di lei, nemmeno mio marito.

La sedia a rotelle mi ha liberata dal supplizio di dover misurare le distanze e rinunciare a quasi tutto, perchè non riuscivo a muovere più di dieci, sbilenchi ed umilanti passi per volta.

Se non diventerò mai alcolista, lo devo unicamente al fatto che sarei terrorizzata dall'idea di dover intraprendere la terapia dei dodici passi, il giorno in cui decidessi di smettere.

La sedia a rotelle prima e la carrozzina elettrica poi, sono state le cose più meravigliose che mi siano mai accadute nella vita. Solo un disabile DOC può capire cosa si prova ogni volta che ci si siede con sicurezza al joistick di una carrozzina elettrica, soprattutto se di quelle che hanno un qualcosa in più rispetto al modello base passato dall'ASL. Appena le terga poggiano sul cuscino antidecubito, ritrovando i familiari solchi disegnati negli anni, senti che quello è il tuo posto e che il tuo posto è comodissimo. Lo sa pure il gatto, che appena mi sposto dalla carrozzina, si fionda proprio lì, snobbando il divano.

Forse solo i motociclisti che salgono in sella ai propri bolidi possono sperimentare lo stesso senso di libertà.

La carrozzina a motore rende liberi... almeno finchè non incontri un gradino.

Innalzerò personalmente una statua al primo ingegnere che riuscirà a progettare e far commercializzare a prezzi vagamente accessibili una carrozzina a motore che faccia pure i gradini. E guardate che con "prezzi vagamente accessibili" intendo perlomeno non superiori alla mia attuale carrozzina, che costa poco meno di una Panda. E, nel caso ve lo stiate chiedendo: no, non sono ricca, ma ho delle precise priorità nella vita: infatti non ho una Panda.

Quindi, se sono sempre incazzata, non è colpa della mia compagna di vita Otto Bock.

Nemmeno il lavoro, una volta in ufficio, è fonte di particolari moti d'ira: credo che in tutta la mia carriera, mi sia capitato solo una volta di perdere veramente le staffe in ufficio e ancora aleggiano leggende in merito.

Il marito ci mette del suo, nei miei malumori quotidiani, ma finché riuscirà a fare i suoi occhi da leprotto abbagliato, non riuscirò mai a restare arrabbiata prima di andare a dormire.

E allora cosa irrita tanto da segnare il mio viso?

Sorvolerò sui dettagli raccapriccianti che accompagnano ogni giorno una disabile cingolata, che intraprende un viaggio di due ore, per arrivare in un luogo non propriamente euforizzante, qual'è un ufficio ubicato sotto terra. Vi dico solo che, per approdare alla mia scrivania, trascino nella mia apocalittica quotidianità ben quattro persone: marito, Capotreno, addetto ai tornelli in stazione - che dare una tessera al disabile perchè si apra da solo sarebbe troppo logico - e autista del pulmino trasporto disabili. Ed è ovvio che più variabili metti sul tuo percorso più è alto il rischio di incidenti.

Se i bookmakers inglesi aprissero le scommesse sulla probabilità che qualcosa non mi faccia incazzare prima delle 9.00, la darebbero 10 a 1.

Lungo questo tragitto, percorro lunghi tratti con la mia fedele carrozzina, circumnavigando marciapiedi senza scivolo, scivoli congegnati per uccidere, automobilisti attratti dai parcheggi per disabili peggio delle mosche con la merda, normodotati che camminano guardano per aria, ignari dell'esistenza di forme di vita che circolano al di sotto del metro è venti. A tal proposito, lancio un appello:

Creature deambulanti, provate a guardare dove mettete i piedi: io lo faccio ed è per questo che la maggior parte di voi esibisce ancora tutte le falangi.

Non parliamo poi dell'adeguatezza dei mezzi di trasporto pubblico e della sensibilità all'handicap di taluni autisti dei medesimi. Per fortuna, almeno sul fronte autista, su alcune linee di Milano stiamo lentamente migliorando: nulla più di un esposto e di qualche richiamo ufficiale rende un tranviere o un pulmista più dolorosamente consapevole dalla tematica handicap. Certo, poi però è meglio evitare di viaggiare in tarda serata: se uno di questi becca me o mio fratello soli, sul loro mezzo di trasporto, non escludo che potrebbe eliminarci, ignorando che occultare una sedia a rotelle da cento chili sia ben più complesso che disfarsi di un cadavere. Per questo non ho ancora ucciso mio fratello.

Ma non basta. A rendere la vita di un disabile ancor più ricca di emozioni, non necessariamente positive, ci si mette sovente pure l'INPS. Anche ora, che hanno impostato i servizi per il cittadino online, le cose non si sono semplificate un gran che. Inizio a sospettare che occorra ben più di una laurea in psicologia per penetrare gli oscuri meandri di una pratica online. Io sto smadonnando da dieci giorni, per presentare il modello ICRI, in cui dichiaro che non sono ricoverata presso un istituto di cura e probabilmente, quando (forse, semmai) riuscirò a ultimare la procedura, mi dovranno ricoverare sì: al nosocomio.

E poi, ovviamente, ci sono tutte quelle faccenduole che ogni tanto movimentano ancor più l'esistenza, tipo quella del mio amico handy che, nell'era di Skype, dovrebbe rinunciare a finire gli studi accademici perché l'ufficio disabili dell'Università di Modena e Reggio Emilia sostiene che non v'è possibilità alcuna di fargli fare un esame da casa. E' davvero possibile che nel 2012 ci si perda ancora in un bicchier d'acqua simile o è solo cattiva volontà? Lo scopriremo col prossimo, emozionante Esposto al Rettore.

Perché spesso le cose poi funzionano, ma quasi mai finiscono per farlo senza un "aiutino" da parte di disabili incazzati e uomini di buona volontà. Guardate Trenord: non c'è treno più bello ed accessibile in Italia di quello che prendiamo ogni giorno io e mio fratello. Ci sono solo voluti un paio d'anni della mia vita per approdare a un simile risultato, ma ora Trenord può fregiarsi pubblicamente di questo traguardo: aver reso veramente accessibile un treno della flotta.

Fare l'handicappata non è facile, ma non è che la medicina o la religione possano fare miracoli, anche se, tecnicamente, questa sarebbe la mission di almeno una delle due. Comunque, in ogni cosa è sempre bene cercare il lato positivo. Negli anni, grazie alla disabilità, ho sviluppato tante di quelle competenze che nemmeno tutti gli stage del mondo. Grande capacità dialettica, adattamento al contesto, redazione di documenti e lettere formali, conoscenza di procedure e un pizzico di giurisprudenza, forte orientamento al massacro... pardon! all'obiettivo.

Sono quasi tentata di inserire "disabile" alla voce "competenze professionali" del mio curriculum.

Ma la disabilità non regala solo competenze spendibili in qualsiasi azienda. La disabilità è il metodo più semplice ed efficace per donare al tuo volto rughe alla Clint Eastwood, anche quando, sulla carta, non hai il corredo genetico necessario ad una grande espressività facciale.

In pratica ora mi viene bene quasi solo una faccia: quella da mezzogiorno di fuoco.

Ruga da Mezzogiorno di Fuoco
Dettaglio della mia ruga,
mentre penso all'INPS


venerdì 27 luglio 2012

Come Guru faccio schifo

Mi sono sempre considerata una persona con una profonda religiosità interiore, sfortunatamente, pare non esista alcuna religione attualmente riconosciuta che incarni le mie credenze. Così, oggi mi sono svegliata e mi sono detta che potrei fondare una religione. Infondo, prima di creare Scientology, L. Ron Hubbard scriveva romanzi di fantascienza. Per quello che ne sappiamo, forse pure l’autore della Bibbia voleva solo scrivere una saga fantasy, solo che invece di parlare del Signore degli Anelli, parla del Signore e basta.

Insomma, ho una laurea in psicologia: dovrei conoscere abbastanza l’animo umano per abbozzare una religione decente. Sicuramente della natura umana ne capisco molto più di un qualsiasi Dio che basa i suoi insegnamenti su una sfilza di proibizioni. Possibile che l’Onnisciente non abbia mai capito che c’è gente che si mangerebbe pure le mele pur di infrangere un divieto?

Ecco, nella mia religione non ci sarebbero proibizioni, ma solo un consiglio: fa quello che vuoi, cercando di non stracciare le gonadi agli altri. Un po’ quello che aveva detto Gesù, ma senza l’obbligo di amare.

Poi, invece di inserire una sfilza di divieti e comandamenti, direi che potrei basare la mia Chiesa su una serie di raccomandazioni. Del tipo che è meglio per te se le rispetti, ma se pure le infrangi, sono fondamentalmente cazzi tuoi, purché ne accetti le conseguenze.

Nei miei 37 anni di vita ho capito ben poco, di me e degli altri, e non sono approdata a nessuna grande verità assoluta. Tuttavia, ho escogitato delle strategie che mi permettono di affrontare diverse cose nella giusta prospettiva. Non che mi facciano sentire necessariamente meglio, ma perlomeno rappresentano un approccio realistico alla vita.
Tra le mie auto-raccomandazioni, quelle che preferisco sono:
1)      Evita di dire “buongiorno” prima delle otto del mattino, soprattutto se non vi sono evidenze empiriche in proposito.
2)      Se hai bisogno di certezze, ogni mattina, appena sveglio, ingoia una rana viva e sarai relativamente sicuro che nulla di più schifoso potrà accaderti per il resto della giornata.
3)      Per quanto tu sia sfigato, cerca di negare sempre l’evidenza, persino con te stesso.
4)      Ricorda che una sega e basta è sempre meglio di una sega mentale.
5)      Non analizzare le recondite motivazioni dei comportamenti altrui, sempre che, ovviamente, tu non sia pagato per farlo.
6)      Non preoccuparti dei malumori di chi ti circonda: se sono tristi, depressi o infelici e ritengono che tu possa/debba farci qualcosa, troveranno il modo di romperti le palle.
7)      Ricordati quanto più possibile che lavori per vivere e non vivi per lavorare.
8)     Prima di fare o non fare qualcosa, chiediti come ti comporteresti se fossi certo di morire entro l’anno.
9)      Se ritieni di aver subito un‘ingiustizia, ribellati, vendicati, rassegnati o bevici sopra, ma non fare la piattola.
10)   A meno che tu non abbia sintomi rilevanti, non scavare nell’inconscio: se una cosa sta lì dentro, c’è sempre un ottimo motivo.
11)   Se ti interroghi troppo sui grandi temi universali, o sei depresso o sei sbronzo.
12)   Goditi l’esistenza cercando di non accorciartela troppo nel mentre.
13)   Non pensare mai di avercela fatta, perché la vita ama contraddire.
14)   Se puoi scegliere tra piangere o mandare affanculo, non dovresti avere dubbi.
15)   Non esiste serenità perenne che non contempli una lobotomia.
16)   Se guardi sotto il letto, scoprirai che non c’è proprio nulla di cui aver paura: lo sa anche l’uomo nero nell’armadio.
17)   Quando ti senti di merda, ricorda che prima o poi ti stuferai di sentirti di merda.
18)   Non bere troppo se non sei pronto ad affrontarne le conseguenze.
19)   Prima di rispondere male a qualcuno, conta fino a dieci: ti verranno in mente più insulti.
20)   Segui le indicazioni del tuo medico, tranne quando ti dice entro quanto morire o ti vuole infilare qualcosa su per il culo.
Ecco, non è che queste massime mi rendano esattamente felice, ma diciamo che nella vita a volte si vince e a volte bisogna accontentarsi di limitare i danni.
La verità è che oggi mi sento di merda, quindi forse dovrei rimandare a domani il concepimento di una nuova religione. O forse no, perché infondo tutte le religioni non fanno altro che ricordarci che non viviamo in un mondo ideale e che per questo a volte ci sentiamo uno schifo. Solo che io non sono affatto convinta che esista da qualche parte un mondo migliore in cui essere sempre felici. Non sono nemmeno convinta che si possa essere felici senza essere mai tristi.
Come riconosci il bianco se non hai mai visto il nero?
Non sono certo io la prima ad esserselo chiesto, altrimenti ci avrei messo le royalties su sta frase.
A volte siamo troppo impegnati a guidare a cento all'ora per chiederci se stiamo davvero guidando nella direzione desiderata. E le nostre paure, ci piaccia o no, ci costringono a farmaci un momento e, talvolta, a reimpostare il navigatore.
Se solo imparassi a viaggiare a velocità di crociera,  anziché correre come una pazza e schiantarmi saltuariamente, forse potrei essere un vero santone. Però posso sempre far finta. Che ci vuole infondo per sembrare un Guru? Basta attenersi al Decalogo Strategico del Figo Supremo:
1) Se ti pongono una domanda che prevede una risposta dicotomica del tipo sì/no o questo/quello, dì sempre: “Dentro di te conosci già la risposta.”

2) Se ti chiedono un parere in generale, rispondi sempre con una metafora.
3) Se non sai cosa dire, non dire nulla, ma con sguardo vacuo.
4) Qualsiasi cosa accada, non dire mai agli altri come dovrebbero comportarsi.
5) Se qualcuno ti ringrazia per averlo aiutato, rispondi sempre: “Hai fatto tutto da solo”. Se sei stato bravo, infondo è vero.
6) Se vuoi sembrare particolarmente saggio, parla il meno possibile e sempre dopo che gli altri si sono scolati almeno due cocktail.
7) Non cercare mai di fare il Guru con chi ti frequenta da più di sei mesi.
8) Fai in modo che chi ti frequenta da più di sei mesi non incontri mai chi ti considera un Guru.
9) Ogni volta che scrivi un decalogo, non inserire mai il decimo punto.

Ecco, ora potete essere anche voi dei Guru: non ho altri segreti o verità da svelare.
Ah no, forse una cosa ancora:
il segreto di una vita veramente piena, non è essere felici, è essere incazzati.

mercoledì 18 luglio 2012

Vantaggiosi svantaggi

Che fare quando un disabile eccede nell'affrontare i suoi "svantaggi" sino al punto di trasformarli in "vantaggi"?
Questo è un tema che mi affascina, perché evidentemente è un problema per i normodotati più di quanto vogliano ammettere.
Partiamo dal presupposto che la moderna società (specie in Italia) non fa un gran che per fornire ai disabili occasioni di, non dico emergere, ma quanto meno accedere al consorzio bipede. Non solo le barriere architettoniche stentano a scomparire, ma ogni giorno vediamo sorgere fulgidi esempi di strutture moderne che non lasciano dubbi circa il fatto che, chi le ha progettate, non ha la più pallida idea di cosa sia un disabile. Quanto ai buoni propositi legislativi per l'integrazione sociale, credo che i più ne ignorino l'esistenza, altrimenti ci si pulirebbero direttamente le terga.

Personalmente, quando i pensieri mi tengono sveglia la notte, prendo in mano la mia copia rilegata, consunta dall'uso, della Legge 104/92. La leggo e la rileggo come fosse la favola della buonanotte, provando a immaginare il mondo fantastico in essa descritto. I miei due passaggi preferiti recitano:

adeguamento delle attrezzature e del personale dei servizi educativi, sportivi, di tempo libero e sociali

provvedimenti che assicurino la fruibilità dei mezzi di trasporto pubblico e privato e la organizzazione di trasporti specifici

Ma non sono io la sola a considerarla una favola. Ogni volta che scrivo a qualche gestore dei mezzi di trasporto pubblico, lamentandone la non accessibilità, cito codeste leggi e regolamenti e di solito mi rispondono: "See... buonanotte!"

Ma cosa accade quando, nonostante tutto, ce la fai?
Cosa accade se, dopo anni di lotte, sacrifici, delusioni, sconfitte e compromessi, arrivi comunque là dove arrivano altri normodotati senza sbattersi tanto?

Una possibilità, è che faremo la fine di Oscar Pistorius e di Michael Johnson. Saremo atleti amputati che, dopo aver lavorato su di sè al punto da accettare quel che sono e lavorare con quel che resta, si vedono negare la possibilità di vincere davvero.
Perché è questo il problema: vincere davvero.
Anche se un giorno verrà concesso loro di gareggiare con gli altri, ci sarà sempre qualcuno che, in caso di vittoria, dirà che non se la sono guadagnata VERAMENTE, perché partivano "avvantaggiati".

Non importa quanto questi atleti abbiano sofferto e lavorato più degli altri per arrivare dove sono arrivati. Non importa cosa abbiano perso, nè le lacrime, il sangue e il sudore aggiuntivi che hanno sputato: quando vincono, tutto ciò che vede un normodotato è il vantaggio aggiuntivo di due protesi in fibra di carbonio.

Mi chiedo quanti altleti siano oggi stimati semplicemente perchè hanno primeggiato dopandosi in modo più astuto. Quanti campioni amiamo semplicemente perchè non sappiamo a quali stratagemmi sono ricorsi per vincere?
Taluni paragonano gli arti di carbonio al doping. Eppure non mi pare che qualche atleta amputato abbia mai sentito il bisogno di nascondere il fatto che calzasse la sua sostanza dopante. Forse, infondo, avrebbero dovuto provare a farlo.

"Perchè gareggi con i pantaloni a zampa di elefante?"
"Ho così freddo che non mi sento più i piedi..."

Per come la vedo io, se un vantaggio c'è nell'indossare queste protesi durante una gara, allora dovrebbe essere calcolabile scientificamente. Stabiliamo che le protesi danno x% in più all'atleta e facciamolo partire con uno svantaggio proporzionale. Non sarebbe certo la prima né l'ultima volta che un disabile arriva comunque al traguardo nonostante un po' di handicap in più. Ma anche così, se mai dovesse vincere, nessun bipede gli riconoscerebbe davvero la vittoria.

Ci sarebbe sempre l'insinuazione che, se non fosse stato disabile, non sarebbe arrivato dov'è.
E sapete che vi dico?
E' maledettamente vero!

Giorno dopo giorno incontro normodotati che non hanno fatto nemmeno la metà delle cose che ho fatto io. Giorno dopo giorno non posso fare a meno di chiedermi cosa sarei se non fossi nata disabile e la risposta è invariabilmente: "sarei molto meno di così".

Dicono che l'essere umano, per dare il meglio di sé, abbia bisogno di sfide. Se le cose stanno davvero in questi termini, biologicamente parlando, siamo gli esemplari destinati a dare di più.

Per frequentare l'università, ho dovuto lottare con ottusi assistenti sociali, fare esposti, scrivere a ministri, vincere borse di studio con cui pagare auto e benzina, pregare Magnifici Rettori per far spostare lezioni da aule inaccessibili e ingraziarmi tutti i bidelli delle strutture per farmi dare le chiavi di bagni utilizzabili e ascensori.

Vi assicuro che studiare, confronto a tutto ciò, è stata una bazzecola.

Ciò nonostante, c'è chi dice che, se oggi ho un lavoro e nemmeno particolarmente malvagio, è perchè mi hanno assunta come categoria protetta.
Di solito rispondo che, se vogliono lo stesso trattamento preferenziale, mi offro di passargli sulla colonna vertebrale con una carrozzina da 80 chili.

Posso però capire anche le reazioni dei normodotati di fronte a certi disabili: deve essere frustrante pensare che uno che manco cammina da solo riesca a superarti.

Essere disabile non è facile, non è divertente e sicuramente non è un'opzione che valuteresti se avessi la possibilità di scegliere. Ma alcune cose della vita accadono e basta e a quel punto hai solo due possibilità: arrenderti o provarci comunque.

E non importa cosa ne pensino i normodotati. Non importa che commentino ogni nostro successo con un "nonostante il suo handicap". Non importa neppure che pensino che, se siamo arrivati dove siamo arrivati, è perchè qualcuno o qualcosa ci ha "avvantaggiati" in virtù della nostra condizione. Noi ogni giorno vinciamo. Vittorie piccole o grandi che siano, ma comunque indicative del fatto che non ci siamo mai arresi.

Nel bene e nel male, i disabili sono ciò che sono, non "nonostante il proprio handicap", ma GRAZIE al proprio handicap.

E allora lasciamo ai bipedi le loro piste di atletica, perché quando sei meglio di loro, dovresti smetterla di cercare ancora di dimostrare  di essere come loro.

Bipedi, avete così da correre per raggiungerci! ;)

N.d.r.: se continuerò a esprimermi per aforismi e assunti universali, dovrò convincermi a fondare una nuova religione.

martedì 3 luglio 2012

Non si fa: disabile cattiva!

Non è facile mantenere una condotta onesta quando buona parte della società ti considera una creatura debole e innocente, a prescindere dalle tue azioni efferate.
I bipedi che non vivono a stretto contatto col disabile hanno oscure fantasie circa la nostra indole: ci guardano come fossimo angeli caduti dal cielo che, presumibilmente, oltre a perdere le ali, hanno riportato gravi danni alla colonna vertebrale. E sì che la Bibbia lo dice chiaramente che gli angeli caduti sono gli angeli cattivi, ma alla fine il bipede vede sempre quel che si aspetta di vedere.
Per uno strano scherzo del destino, io poi mi chiamo pure Angela e alcune persone mi frequentano con l'assurda certezza che io sia qui per salvarle da se stesse. Mia madre ci provò a darmi un nome non convenzionale, scomodando persino i Rolling Stones. Ma complici un neo-padre confuso, un impiegato dell'anagrafe anticolonialista e una prozia il cui funerale improvviso impedì a mia madre di affrontare un intervento, mentre era inconsapevolmente incinta della sottoscritta, fecero di me un'Angela.

Bastava interrogarsi sulle assurde coincidenze e le perverse casualità che determinarono la mia nascita, per comprendere che il Diavolo ci stava mettendo lo zampino.

Ad ogni modo, probabilmente per via della dissonanza con la mia indole, tra le pareti domestiche nessuno mi ha chiamato Angela, ma Engy, scritto con la "E", perché ai tempi dei miei, mica s'insegnava l'inglese nelle scuole.
Io sono sempre stata Angela solo a scuola o al lavoro, ovvero quando è fondamentale convincere chi hai di fronte della tua natura benigna. Considerando quanto poco fisionomista sono, è un gran vantaggio sentirsi chiamare "Angela" o "Engy": capisco subito se devo sembrare buona o se posso essere me stessa. Ma come fate voi bipedi a distinguervi gli uni dagli altri? Camminate tutti allo stesso modo!

Devo comunque ammettere che non serve essere un genio del male per convincere il prossimo deambulante dell'innata bontà dell'ingroppato. Come se nascere con un grave deficit motorio ti rendesse automaticamente santo anziché incazzato nero.
Io ne approfitto dalla prima elementare, quando le suore mi davano la chiave della stanza dei giochi, per impedire che le bambine che correvano in cortile mi facessero cadere. Poiché mi era concesso portare con me due amichette, presto istituii un racket molto redditizio: in cambio dell'accesso alla stanza delle meraviglie, esigevo pagamenti in figurine, gadget dei cartoni animati e merendine. Non mi avesse scoperto mamma, ora sarei più grassa e ricca di Jabba the Hutt.
Da allora comunque ho interrotto la carriera criminale, ma non ho mai rinunciato a qualche piccolo "privilegio" ottenibile grazie alla mia condizione.

Oltre a essere disabile, ho delle ciglia lunghissime e non ho paura di sbatterle.

Quando sono in treno e si avvicina il controllore per chiedere il biglietto, inizio a far finta di armeggiare con la cerniera, accentuando le manine storte, perché non ho voglia di ravanare nella borsa di Mary Poppins alla ricerca di un biglietto. Di solito, basta mettere fuori la linguetta con espressione concentrata, per indurre qualsiasi controllore a dire imbarazzato:
"Lasci, lasci... va bene così!"

A volte invece, ci ferma la stradale. Di solito basta che scorgano il cartellino invalidi per ottenere un "Vada, vada", ma quando decidono di esibire la propria equanimità sottoponendo a controllo persino l'auto di un'invalida, non posso fare a meno di raccogliere il guanto di sfida e vedere fino a che punto siano disposti a procedere. Finora, tutti si sono fermati al primo atto: disabile prossima all'attacco d'ansia che chiede delucidazioni confuse all'accompagnatore.
"Che succede? Eh, che succede? Non capisco... cos'è successo? Mi manca l'aria... di nuovo!"

E poi ovviamente si sfodera l'espressione da disabile triste ogni volta che si deve affrontare una coda o si vuole entrare nel camerino di un cantante dopo il concerto. In pochi secondi compare all'orizzonte qualcuno che, con cavallo e armatura scintillante, urla in mezzo alla folla: "Lasciate passare! Venga signorina: la scorto io."
Per anni ho sfruttato la scusa del disabile per passare prima agli esami accademici: se tanto ti devono interrogare, ho sempre pensato fosse meglio togliersi subito il pensiero, anziché ascoltare gli esami prima del tuo e togliersi il dubbio di non sapere un cazzo.

Paradossalmente, ciò non funziona al supermercato, ove il diritto di precedenza alla cassa prioritaria è sancito da regolamento. E lì, invece della faccia da disabile triste, devi esibire l'espressione glaciale alla Clint Eastwood e muovere nervosamente la mano sul joistick, comunicando con lo sguardo: "Questa carrozzina da 100 kg. non si fermerà, qualsiasi cosa incontri sul percorso".

Quando poi le persone non ti conoscono, è incredibilmente facile essere scagionata da qualsiasi sospetto grazie ai pregiudizi altrui.
"Te lo ha detto Angela di rubare i biscotti? Oltre che ladro sei pure bugiardo!"

"Non si danno spintoni alle persone disabili! E non dire che è stata lei a cominciare, che fai piangere Gesù!"

"Se fai fatica a tenere riga e squadra, ti aiuto io col disegno tecnico."

"Sei pronta oggi per l'interrogazione? Hai fatto tardi a causa della riabilitazione... Facciamo domani o preferisci settimana prossima?"
"Di chi sono questi preservativi? Di Angela? E ti aspetti che io ci creda?!?"

"Chi si è fatto una canna qui dentro? Almeno abbiate la decenza di non fumare nella stessa stanza di una persona disabile!"

"Tranquillo: siete solo due candidati per quel posto di lavoro e l'altra è sulla sedia a rotelle."

Essere sottovalutati è scocciante, ma spesso torna utile e non solo a me.
Ogni volta che mio marito o i miei amici vogliono ottenere sconti e servizi aggiuntivi, mi dicono:
"Io parlo. Tu fai la faccina da disabile."

L'espressione da disabilino affranto è più letale degli occhioni del Gatto con gli stivali di Shrek.

Avessi avuto un'inclinazione per il crimine, sarei stata un corriere perfetto: sotto il sedile di una carrozzina, non controlla mai nessuno. Senza contare che ogni volta che supero le barriere antitaccheggio di un negozio, la carrozzina a motore fa suonare l'allarme e la sicurezza si scusa imbarazzata, senza perquisirmi. Potrei darmi al furto senza destrezza e nessuno sospetterebbe di me.

Uno di questi giorni ucciderò qualcuno, solo per dimostrare che il delitto perfetto esiste. Non mi accuserebbero nemmeno se il cadavere mostrasse impronte di pneumatici da B600 sul cranio sfondato.

C'è una sola cosa che mai ho fatto e mai farò: sfruttare la mia disabilità per avere permessi e giustificare assenze sul lavoro. Già le aziende si fanno la fantasia che "disabile" significhi "cagionevole di salute", se poi ci aggiungiamo esperienze con disabili fancazzisti che approfittano della propria condizione per non lavorare, ecco che la categoria si frega con le sue stesse ruote.
Per esperienza posso dire che, più il disabile sembra grave ad occhio normodotato, più lavora. Ma le aziende si ostinano a cercare disabilità non evidenti, secondo l'irrazionale principio che "se non si vede, non può essere tanto grave". Certo, come no? A volte credo che un oncologo abbia molto da insegnare a chi si occupa di risorse umane.

Personalmente non sfrutto neppure i permessi della Legge 104, se non nelle occasioni in cui la burocrazia riservata ai disabili non mi costringa a presenziare altrove, per risolvere questioni legate ai Quattro Cavalieri dell'Apocalisse: ASL, INPS, ACI e, un tempo, collocamento mirato. Talvolta prendo un giorno anche per qualche visita, ma sempre compatibilmente con gli impegni lavorativi. Il bello della 104 e non dover esibire certificazioni mediche per andare dal ginecologo.

Del resto, al lavoro trovo vitto, trasporto e assistenza: chi me lo fa fare di stare a casa?
Come se ciò non bastasse, solo un lavoro onesto e un titolo altisonante come "consulente" o "esperto" ti garantiscono di incontare orde di bipedi senza che questi, vedendoti su una sedia a rotelle, s'interroghino innanzi tutto sulle tue capacità intellettive.

Il mio ufficio è uno dei pochi posti al mondo in cui, chi entra e vede un disabile, lo saluta con "Buongiorno" e non "Ciao" o "CucciCucciCucciCu".

Confesso poi di preferire le attività di selezione del personale, essenzialmente perchè non mi basta essere trattata alla pari dai bipedi: io voglio incutere soggezione! ;)

Ma la verità è che infierisco solo su coloro che se lo meritano. A volte la nostra "diversa abilità" consiste nell'assecondare gli stereotipi altrui. Per questo non mi occuperò mai di disabili: tutti gli handicappati meritano le mie stesse chances d'infinocchiare il prossimo.

Comportarsi come la gente si aspetta debba comportarsi un disabile non è imbrogliare: io lo chiamo "rispettare le credenze altrui".

Passo metà della mia vita a dimostrare che sono in grado di fare più cose di quanto non si pensi e l'altra metà a fingere di saper fare meno cose di quante ne sappia fare.

A volte mi comporto da disabile cattiva. Spero solo che anche S. Pietro si faccia ingannare dalla sedia a rotelle.



giovedì 28 giugno 2012

I disabili veri sono puttane

I disabili veri sono puttane e come le puttane vere, solitamente lo sono perché non hanno alternative.
Se vivi seduto su una sedia a rotelle, hai solo due possibilità: mantenere intatto il tuo senso del pudore e del decoro, oppure fregartene e vivere. Io ho optato per la seconda, ma la maggioranza credo abbia scelto la prima opzione, dato che non vedo in giro moltissimi disabili pronti a tutto.
Il mio senso del pudore credo risulti disperso dal lontano 1993, quando per la prima volta feci un viaggio senza i miei genitori e decisi di partire col botto, prendendo un aereo con amici, per Miami.
Se sei normodotato, quando sali su un aereo, la tua più grande preoccupazione solitamente è: 
“E se precipita?”
Se sei disabile invece, il cruccio ossessivo connesso al volo è: 
“E se mi scappa la pipì sull’aereo?” 

Quando la tua prima vacanza indipendente comporta l’urinare in un cubicolo minuscolo, con la porta aperta,  un’amica che sta in piedi sul cesso per sfilarti le mutandine e uno stewart che fa da paravento per risparmiare la visuale ai passeggeri di prima classe, capisci che puoi sopravvivere a qualsiasi altra onta. 
Paradossalmente, sono contenta di aver iniziato con l’esperienza più assurda, perché ora so di poter sopportare di tutto, meno che un altro volo transoceanico.

Ad ogni modo, come potrei avere ancora senso del pudore? 

Sono disabile: solo per fare la pipì, almeno cinque persone diverse al giorno mi sfilano le mutandine. 

Se dovessi curarmi di certe cose, probabilmente non potrei permettermi di uscire di casa. Nella vita ho fatto di tutto, incluso chiudermi in bagno con un uomo appena conosciuto: o così o me la facevo addosso.
Non è che uno deve piacerti per andarci in bagno, anzi, di solito è meno imbarazzante se l'interesse sessuale non sussiste. Tuttavia, se stai davvero valutando qualcuno come partner, è inutile girarci intorno: prima o poi lo scoprirà comunque che, se vuole stare con te, dovrà seguirti persino nel bagno ed è meglio capire subito se è uno di quelli che se la sente oppure no. Io poi, personalmente, non riuscirei mai a stare con un uomo che non sia pure un bravo "badante".

Per fortuna, la maggior parte degli uomini se la cava con l’assistenza alla persona esattamente come col sesso: basta spiegargli chiaramente cosa vuoi che faccia e tutto va per il meglio.
Mi è capitato di sentire i discorsi di alcuni disabili, che sostenevano che se il tuo compagno/a è costretto ad aiutarti in "certe cose", poi è naturale che il sesso ne risenta. Perché invece avere una badante che ti spogli, ti vesta in modo sexy e poi si ritiri nella stanza a fianco mentre tu trombi come un riccio, salvo poi tornare a rassettarti e lavarti, dovrebbe mantenere vivo il rapporto? 
Certe cose le puoi pensare davvero solo se non hai un partner fisso, che tu sia su sedia a rotelle o meno.

Senza andare a cercare il disabile nel pagliaio, tutte le donne sposate convivono con uomini che girano per casa in mutande, facendo le cose più orribili in bagno mentre loro si truccano e, ciò nonostante, ci fanno ancora  sesso.
Ogni giorno prendo un treno, che mi porta a lavorare a quasi due ore di strada da casa e ovviamente al lavoro mica ci vado con parenti o badanti. L’unico modo in cui puoi fare una cosa simile è essere il tipo di persona che, dopo essersi presentata educatamente e aver messo a proprio agio il bipede, accompagna gradualmente l’ignaro verso un corso accelerato di certificazione OSA (Operatore Socio Assistenziale).
E, salvo emergenze, la scaletta è solitamente questa:
“Ti dispiacerebbe aiutarmi a sfilare il golfino?”

“Mi accompagneresti fino alla stazione, giusto per sicurezza, nel caso ci fosse un gradino” (E ovviamente tu il gradino sai benissimo che c’è).

“Avrei bisogno un accompagnatore per il Concerto più fico dell’anno: te la senti di accompagnarmi in macchina, aiutandomi a salire e scendere? I biglietti ovviamente sono gratis per disabile e accompagnatore.”

E poi al concerto ti scappa la pipì e siete solo voi due: grazie al cielo, in vita mia non ho mai incontrato nessuno che si tirasse in dietro nel momento del “bisogno”.

Questo accade abitualmente e nessun bipede rimane traumatizzato. L’importante è fare qualche battuta, fornire spiegazioni dettagliate ed avvalersi delle giuste tecniche di motivazione:
“Ma sei sicuro di non averlo mai fatto prima? Non ci credo!”

“Fai anche questa e ti rilascio il patentino da assistente personale di secondo livello.”

 “Superata questa rampa di scale, ti nomino accompagnatore dell’anno.”

E sì, perché l’unico ad avere paura, in questi casi, è proprio il normodotato. 
Finché il bipede non si sente sicuro di sé, non si corrono mai dei veri rischi e il disabile professionista lo sa. Le rare volte in cui ci si fa male, è sempre col super-esperto che palleggia la carrozzina da una mano all’altra e si esibisce in virtuosismi assistenziali, tipo spingerti su un sentiero di montagna con una sola mano, mentre nell’altra regge la terza birra.

Io in casa non ci resto e nemmeno voglio farmi le vacanze con mamma e papà o non esplorare posti nuovi senza la mia palla al piede consacrata tale dal sacro vincolo del matrimonio. Se essere "indipendente" significa essere sfacciata e mostrare le terga a Milano e provincia, sono pronta a farlo.

Essere indipendenti non significa cavarsela da soli, ma dipendere da così tante persone da non pesare su nessuno.

D'altronde dovremo pur dare occasione ai normodotati di sentirsi veramente utili e di guadagnarsi il paradiso. Non è forse scritto: “Aiuta il tuo prossimo”? Se tutti i disabili rinunciassero a farsi soccorrere per paura o senso del pudore, un sacco di bipedi finirebbero all’Inferno.

Quando si tratta di andare al bagno, io sono una meretrice: vado con chiunque, femmina o maschio che sia, però almeno non mi faccio pagare. Sono la Maddalena delle diversamente abili.
Di me non si potrà mai dire che sono una che non te la fa vedere manco col binocolo.

Dio mi ha dato una missione originale: redimere la gente porgendogli le terga anziché le guance.
Non importa che tu abbia peccato in pensieri, parole, opere e omissioni: porta in bagno un handicappato e sarai salvato, e magari pure in modo comico, se ti capita lo storpio giusto.


Foto: Zoo di Vienna - esempio di salita da praticare solo con accompagnatore esperto, cintura nera di spinta manuale. Con la mia scorta personale, siamo salite e scese, incridibilmente senza danni a cose e/o carrozzine: donne con le palle, ma pur sempre donne, quindi non ci siamo accorte che si poteva salire col trenino accessibile.